In America il diritto alla vita e quello alla proprietà sono una sola cosa

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In America il diritto alla vita e quello alla proprietà sono una sola cosa

11 Marzo 2010

“Difendo la famiglia, dunque sono favorevole al libero mercato”. Il cogito ergo sum del mondo grassroots conservatore statunitense è questo. È il diritto di proprietà, il più esteso e radicale possibile ‒ sono arciconvinti a quelle latitudini ‒ lo strumento principe che, permettendo in modo assai materiale di tenere il naso dello Stato lontano dagli affari di famiglia, rende concreta la tutela della vita nascente, della morale naturale, dell’educazione libera, e così via.

Da quelle parti sovrano è il consumatore e il contribuente, il cittadino, cioè, che compra pagando e che pagando controlla. Che chiede insomma di sapere, detenendo il potere dei cordoni della borsa, come vengono impiegati i suoi denari, che domanda di conoscere quali sono i costi dei servizi che il suo denaro acquista questionando sui rincari per discriminare tra guadagni legittimi e creste illecite, che esige la trasparenza quotidiana delle amministrazioni, dei management e della politica a cui presta i propri soldi affinché l’investimento renda.

Intendiamoci, anche negli Stati Uniti si aprono dibattiti costanti e pure serrati fra libertarian e cosiddetti “social conservatives”, ma là è molto più facile che, in modo laico, sereno e diretto, si boccino provvisioni di legge neomalthusiane e abortiste agendo sul semplice filo del ragionamento che dice che i dollari dei contribuenti e di quelle loro imprese private-pubbliche giacché autenticamente sociali e d’investimento sul futuro che si chiamano famiglie non possono e quindi non debbono essere adoperati per pagare i costi delle voglie, dei vizi e dei “diritti” di ben altri business.

Da noi, invece, queste sono cose difficilissime anche solo da articolare per via teorica. Da noi vige infatti il falso mito secondo cui laissez-faire vuol dire “mangiarsi i bambini” così come impera il suo rivale speculare, quello per cui le politiche sociali per la famiglia sarebbero solo l’altro nome del socialismo. I risultati, del resto, si vedono.

Immaginiamoci dunque che faccia farebbero da un lato i nostri uomini politici e dall’altro la società civile divisa fra advocacy group incentrati sui “princìpi non negoziabili” e alfieri del mercato più libero che c’è di fronte a quel che sta proponendo ora GOPUSA, il cui nome sta per Partito Repubblicano degli Stati Uniti di America, ma che in realtà è una organizzazione privata e indipendente che opera per spostare sempre più a destra i Repubblicani con il risultato di avere entusiasmato milioni di elettori ma soprattutto di aver fatto sapere al partito che là fuori esiste un mondo enorme pronto a dare il voto tanto quanto a negarlo.

Nato nel dicembre 1999 per iniziativa del businessman texano Robert “Bobby” R. Eberle, classe 1968, GOPUSA sta ora sondando la sua enorme mailing list invitando a rispondere a un questionario, il 2010 American Morality Survey, che va firmato con generalità e indirizzo e-mail, in cui si chiede se il cittadino medio americano debba trattamenti di riguardo sul posto di lavoro agli omosessuali, se la Corte Suprema debba mettersi a ripensare la definizione attuale di matrimonio e se ‒ eccoci ‒ si debbano spendere milioni di dollari dei contribuenti per finanziare la cosiddetta “gay art”, i programmi detti di “AIDS-awareness” e le ricerche sulla cultura omosessuale alias propaganda politica. Forse nemmeno tutto l’oro del mondo potrà mai comperarsi il paradiso, ma il dollaro sta cominciando a fare miracoli.

Marco Respinti è Direttore del Centro Studi Russell Kirk