In attesa dell’incontro fiorentino sulla “sofferenza” dell’Evangelo nella Chiesa

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In attesa dell’incontro fiorentino sulla “sofferenza” dell’Evangelo nella Chiesa

27 Aprile 2009

Mi ha stupito un’amica, cattolica praticante “non assidua”, che ho incontrato qualche settimana fa. Mi dice in maniera tesa, quasi candidamente minacciosa: ‘Sai della prossima riunione a Firenze dedicata ad affrontare i problemi della Chiesa?’. In effetti una cosa di tanta importanza (l’obiettivo sembra essere la chiesa italiana, se non il pontificato e la chiesa universale) mi era sfuggita. Scopro allora che l’amica frequenta l’Eremo di Mosciano, nei dintorni di Firenze, ove ha saputo dell’invito, partito da un gruppo di laici e religiosi italiani, “ai Cristiani, per un incontro comune” a Firenze il 16 maggio prossimo. Il tono con cui l’amica mi parla dell’evento è quello di chi dice: finalmente vedremo chiaro e giudicheremo il presente di “questa Chiesa”. “Questa Chiesa”, intravedo, è la Chiesa dei “non mi piace”, “in cui non mi riconosco”, secondo formule note.

Che una persona non giovane, non engagée ma alla ricerca di un ordine emozionale, trovi un suo senso del vivere nella tensione critica del benedettino don Paolo Giannoni, che vive a Mosciano, o negli “esercizi” predicati, con sfumature (diciamo così) antiromane, al Monastero di Camaldoli, può anche non dispiacere.

Si tratta di un fenomeno relativamente diffuso, più che in Italia nell’Europa cattolica del declino (temporaneo come oso sperare, spes contra spem!) delle grandi chiese nazionali “di popolo”. Smarrita per strada, o fortemente diluita, la predicazione dell’incorporazione (sociale, nel senso di De Lubac, e gerarchica) in Cristo, della vita soprannaturale, del realismo sacramentale, dell’ontologia cristiana insomma, resta della cosiddetta vitalità conciliare almeno una effervescenza “critica”, affine alle altre forme di micromobilitazione che per alcuni sociologi costituiscono il “capitale sociale”.

È una animazione militante, anche giovanile ma più spesso da età matura, perché atta a declinare (in linguaggio ecclesiale, anzi nel gergo dell’ecclesialese) attese deluse di un mondo migliore. Si riconosce nella denuncia della “Chiesa matrigna” di Alberto Melloni, o nella “differenza cristiana” dell’amico Enzo Bianchi, certo non quando egli  propone una “fede pensata” e dialettica, secondo Scrittura e Tradizione, ma quando si abbandona all’omiletica, contro le sue intenzioni di così facile trascrizione nihilistica, della cristiana “vocazione all’esilio, alla diaspora, alla dispersione tra le genti, le culture” (La differenza cristiana, Einaudi, 2006, p.93), del “relativismo cristiano”, cui si opporrebbero “la pretesa di possedere la verità” o “la definizione della verità che rischia di sostituirsi alla verità vivente”, e naturalmente ”la violenza, il fanatismo, l’intransigenza” religiosa. Ma di chi? chiediamo. E chi sono, invece, i cristiani miti? Andrà pur detto. Non si può fingere di non sapere quale indirizzo prendano, nelle cerchie cattoliche “adulte”, le indeterminate deprecazioni della cattedra di Bose. E questo vale anche per il Bianchi recentissimo, Per un’etica condivisa (Einaudi, 2009). Comunque la comunità di Bose non appare, per quanto posso orientarmi nei nomi, tra i firmatari.

Quella effervescenza trova poi, localmente, le sue nicchie e le sue manifestazioni polemiche. Convinto come sono, su base teorica e di ricerca, del carattere costitutivo della complexio oppositorum, della grande e feconda varietà di forme (se e in quanto legittime) dell’appartenenza e del sentire cattolici, considero senza scandalo il percorso di questa amica e di altri.  Spero sia,  comunque, un freno al disorientamento, alla perdita di senso cristiano. Ma credo anche, e non da oggi, di non dover sottovalutare il peso specifico delle formule e delle analisi che alimentano il cattolicesimo cosiddetto “critico” o “adulto” (due connotati che non si sovrappongono, poiché si può essere adulti senza essere “critici” e “critici” senza essere adulti). Si tende invece, anche in sede pastorale, a lasciar passare linguaggi e categorie “critici” quasi che il loro risultato, ad esempio una mobilitazione spirituale ed ecclesiale, sia sempre buono, per sé indifferente al genere di mezzi simbolici, anzi di “messaggi”, con cui è indotto.

La convocazione, che si intitola Il vangelo che abbiamo ricevuto, è reperibile principalmente su tre siti, www.statusecclesiae.net (di Alberto Melloni e altri), www.granellodisenape.com (il gruppo torinese, primo promotore?), e www.gruppovillaguicciardini.it, più localmente fiorentino. Si presenta come un ulteriore manifesto del genere di quelli “alla Chiesa fiorentina”, o a quella torinese, o dell’appello stilato da Giuseppe Alberigo. Alcuni di questi testi sono facilmente accessibili su statusecclesiae, sito che si presenta come un piccolo arsenale “critico” cui non manca niente di essenziale, compreso il raccapricciante documento (gennaio 2007) dei domenicani olandesi sui ministeri e l’eucaristia.

La chiamata è corredata di molte firme, anche autorevoli, alcune ricorrenti da anni nel genere letterario detto. Ha due nuclei principali di firmatari, uno “torinese” ed uno “fiorentino”, senza dimenticare un polo siciliano e uno emiliano: corrispondono alla serie degli interventi previsti, del gruppo di Torino, di don Paolo Giannoni, di don Pino Ruggieri (Catania, ma anche Bologna), più il supporto “bolognese”.

Leggiamo il testo. Già la retorica dell’invito, esteso “a tutti senza esclusione”, in quanto tutti “concittadini della città dei santi”, e la convocazione di tutti a Firenze, quasi fosse territorio ecclesiastico nullius in cui riunire un piccolo decisivo concilio (della “chiesa dei gentili” come direbbe, seriamente, un dotto amico e padre domenicano), implicano messaggi consapevoli negli estensori, ma subliminali per molti destinatari, che impongono un commento. È sintomatico, tra l’altro, che proprio la complexio ecclesiale, della cui duttilità e tolleranza i promotori oggi si avvalgono per liberamente e pubblicamente convocarsi, venga connotata come “frantumazione e poca comunicazione effettiva” nella Chiesa, quasi a dire che se le cose andassero come dovrebbero tutto nella Chiesa sarebbe più ordinato e comunicante. Intendo, fin troppo facilmente: in conformità ai canoni “critici”, che il documento chiama “evangelici”. 

“Sofferenti” di fronte ad una Chiesa “che condanna” (ove ritrovo, purtroppo, il topos della “Chiesa del no” additata all’opinione pubblica dal superiore magistero di “Repubblica”), i promotori operano nel “desiderio che la libertà dei figli di Dio, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano” (sottolineatura mia). Siamo all’emergenza. Il metodo dell’incontro sarà “mettere in comune l’esperienza concreta e vissuta del Vangelo”, una condizione naturale, evidentemente, nei “concittadini della città dei santi”. La proposta teologica sarà rendere tangibile agli uomini l’amore trinitario, a somiglianza di Gesù “che ha assunto ogni realtà umana” (?); la sua forma ecclesiologica sarà la “chiesa della fraternità e della sororità”, “nella comunione e nella corresponsabilità attiva di tutti, eguali in dignità”.  

Non potrò esserci. Non sono all’altezza, io almeno, di una comunione e di un operare che il p. Mersch (riapro ogni tanto la sua Théologie du corps mystique) attribuiva al Cristo totale. Non oso pensare (neppure lo direi, perché non si parla a vanvera di queste realtà) di avere una “esperienza concreta e vissuta del Vangelo” senza il misterioso ausilio della Grazia e la costante supplenza delle Chiesa, in modi non necessariamente e sempre aperti al mio discernimento. Non debbo, comunque non potrei, “assumere ogni realtà umana” –  realtà assunta, o sussunta in senso peculiare, solo nel Cristo glorioso della Pasqua. Chi scrive quelle cose, a proposito della persona di Gesù di Nazaret, confonde la dimensione kenotica dell’Incarnazione col mito romantico del reprobo, con un maledettismo (“la razza sempre maledetta dalle potenze della terra”, formula che si attaglia, però, alla missione e sacralità dell’artista romantico, nuovo Sacerdote) che non appartiene alla Scrittura, né alla tradizione cristologica.

Un simile rischio anche quando don Giannoni scrive (nella sua Riflessione su Verona, del 2006, consultabile per intero in statusecclesiae) della Chiesa come sacramento del “Cristo immondo che si immerge nell’immondezza del mondo e la vince”, scandalizzando degli amici, ben provveduti in teologia, che me lo hanno fatto notare. Meglio non maneggiare imprudentemente la Cristologia (la citazione di 1 Cor 1, 25 è poco pertinente al gioco metaforico di Giannoni) per invitare, in fondo, all’ennesima e ripetitiva “apertura” al Mondo moderno, all’Altro, all’Errante.  Dopo decenni di illusioni e di elementari (non per questo innocui) errori filosofici e teologici, l’intelletto cattolico ha bisogno piuttosto di un riesame critico di referenti (anzi: di abusivi canoni) quali “l’umanità di oggi”, “la realtà contemporanea” e simili, cui è stato dato corso di loci teologici. Esse non costituiscono, comunque, né immondezza in cui immergerci come cristiani né paradigma cui attenerci; tanto meno esse sono, nihilisticamente, un paradigma proprio in quanto immondezza.

Ma diffido anche della scarsa rigorosità, del qualunquismo semantico, di formule come “corresponsabilità attiva di tutti” e “eguaglianza in dignità” gettate nel delicato organismo della dottrina della (e sulla) chiesa.   L’intelligencija è sempre tentata dall’utopia della anticipazione del Regno in “comunità fraterne”, meglio se è essa stessa a regolarle. Sennonché sono costitutive dell’intelligencija anche una pretesa di verità (magari della inattaccabile verità che “nessuno possiede la Verità”) e una conseguente emulazione antagonistica nei confronti dell’autorità legittima.

Ma prima di allinearsi conformisticamente alla non innocente battaglia di Barbara Spinelli o di Corrado Augias o di Adriano Prosperi, sull’assenza di “misericordia” nella Chiesa contemporanea, accusa già rivolta a Giovanni Paolo II, ci si chieda: perché il “recente risveglio” (come mi chiedeva un amico, polemicamente)  delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? 

Rispondevo di non avere interesse ad argomentare, come sarebbe possibile, che non è propriamente così. Credo in effetti che debba essere prevalentemente così. L’ambito bioetico e biopolitico sono di tale crucialità che è l’assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria, e nella sollecitudine dei cristiani colti, ad apparirmi colpevole. Vi sono ambienti dove i caveat bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce invece deprecare, direttamente o più spesso obliquamente, che altrove si formulino; deprecare cioè la gerarchia, seguita da cerchie “estremistiche”. Astensione colpevole, perché nessun cristiano, nessun cattolico in particolare, è giustificato nel non intendere che le nuove “libertà antropologiche” sono negazione del senso e dell’esistenza dell’uomo come Creatura. Hanno, cioè, portata de fide e rilevanza per la salus animarum. Come amo ripetere, con il Racconto dell’Anticristo di Solov’ev, la Chiesa cattolica è tenuta a pronunciare il suo “contradicitur!”, il suo “no!”. Ed è pienamente, non retoricamente, evangelico che sia Pietro (Lc 22, 32) a scandirlo.

Bisognerebbe che gli amici firmatari (tra cui molti colti e colte, e diversi filosofi) fossero più consapevoli di quanto fanno, o dicono di voler fare, quando si convocano contro “questa Chiesa”.