In Avatar è racchiuso tutto il fascino e l’inquietudine del post-umano

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

In Avatar è racchiuso tutto il fascino e l’inquietudine del post-umano

22 Gennaio 2010

L’applauso scatta spontaneo alla fine del film, quando ancora nessuno ha tolto gli occhiali per la visione in 3D (che funzionano senza dare fastidio neanche messi sopra agli occhiali da vista): quasi tre ore incollati alla sedia, più che un film è un’avventura personale, proprio per quegli effetti speciali e le fantastiche immagini tridimensionali che catturano e trasportano sul pianeta Pandora chiunque le guardi.

Con il suo ultimo capolavoro James Cameron ha assicurato lunga vita al cinema: Avatar è una storia da raccontare in tre dimensioni e su grande schermo, un film impossibile da gustare sulle TV di casa, ultimi modelli schermo piatto compresi; e visto che sempre più registi utilizzeranno le nuove tecniche di cui Cameron ha fatto man bassa, saremo costretti a tornare sempre più spesso nei cinema multisala. 

La trama, di per sé, ha poco di originale. Come è stato già scritto, è molto Pocahontas e Balla coi Lupi, con un po’ di Braveheart, Apocalypse Now ed altro ancora, comprese le tracce della guerra in Iraq: un popolo tecnologicamente primitivo (i Na’vi) che vive in armonia con la natura in terre remote (il pianeta Pandora, anni luce dalla Terra), rischia di essere spazzato via da cattivi senza cuore (gli umani) che vogliono appropriarsi di un prezioso minerale di cui i territori Na’vi sono ricchi. Un manipolo di coraggiosi (umani) guiderà alla vittoria finale le genti minacciate, con tanto di epica battaglia conclusiva. Ma evidentemente lo schema narrativo si ripete nel tempo perché funziona e convince; per esempio i buoni e i cattivi, come in ogni favola che si rispetti, sono immediatamente riconoscibili, senza ombra di ambiguità né giustificazioni psico-sociologiche: non c’è una famiglia violenta alle spalle a giustificare la ferocia del colonnello, in Avatar, così come non c’era un’infanzia difficile a spiegare quanto fosse maligna la strega di Biancaneve.

Non manca neppure la storia d’amore fra due personaggi che inizialmente appartengono ai due schieramenti contrapposti; e se gli abitanti del pianeta Pandora non sono tratteggiati con la genialità sofisticata dei Cavalieri Jedi e degli avventori del Bar di Guerre Stellari,  con cui il paragone è d’obbligo, hanno però un loro fascino: enormi e sinuosi, i Na’vi  sono  umanoidi blu, vivono in un ambiente meraviglioso popolato da creature incredibili, un pianeta che possono sorvolare in sella a bestie volanti simili a draghi, dove le montagne sono sospese nell’aria, gli alberi sono enormi e quasi magici, un trionfo, insomma, di flora e fauna fantastica.

Ma non sono soltanto gli effetti speciali, seppure grandiosi, la novità di Avatar. In un certo senso, probabilmente al di là delle intenzioni del regista, è anche un film sul transumano e sul cyborg, e sull’enhancement, cioè sulla possibilità di mutamento e miglioramento del corpo e delle abilità umane grazie all’evoluzione tecnologica: i temi più avanzati e inquietanti della biopolitica. Per poter conoscere i Na’vi  e carpirne le informazioni necessarie per impadronirsi delle loro terre, alcuni umani cercano di avvicinarli e conquistarne la fiducia rendendosi simili a loro, entrando in corpi appositamente creati in laboratorio, gli Avatar, appunto, identici a quelli dei Na’vi  nell’aspetto, ma sviluppati geneticamente mischiando Dna umano e Na’vi, e animati dalla mente umana mediante un’interfaccia sensoriale: l’umano si distende all’interno di una capsula – simile al lettino di una TAC – e viene fatto cadere in un torpore profondo durante il quale la sua coscienza si trasferisce nel corpo Avatar, guidandolo.

La storia viene scandita da questa continua entrata e uscita dai corpi, quello umano e l’Avatar: una la mente, e due i corpi a disposizione, e quando uno agisce l’altro è inerte. Con un colpo di genio, il regista ha deciso che il protagonista principale, l’ex marine Jake Sully, fosse paraplegico: il contrasto fra la sedia a rotelle su cui si muove l’ex-marine quando è nel suo corpo naturale, con le sue gambe inerti e magrissime in evidenza, e il corpo agile e potente del suo Avatar, non poteva essere più acceso. La carrozzella dell’invalido appare antichissima e fuori posto, in mezzo a tanta tecnologia, ma il film non sarebbe stato così efficace se il protagonista avesse camminato sulle sue gambe. E se all’inizio i due corpi fanno riferimento a mondi separati, i clan indigeni di Pandora e i terrestri, man mano che la narrazione si sviluppa corpi e mondi si intrecciano, fino al riconoscimento finale, quando la bella indigena Neytiri riconosce Jake nel suo aspetto umano, salvandogli la vita, in un abbraccio che unisce i due corpi, dove è quello Na’vi che accoglie l’altro, e lo sovrasta.

Il corpo Na’vi, perfettamente riprodotto dall’Avatar,  è migliore di quello umano: più alto – tre metri circa – più colorato, il suo scheletro è rinforzato e più forte di quello dei terrestri, ed è in perfetta armonia con l’ambiente impervio e lussureggiante di Pandora: sa muoversi facilmente in percorsi impossibili, si getta da altezze vertiginose restando incolume, si arrampica ovunque con un’agilità impensabile per un umano, il tutto conservando un’eleganza felina. Nasce di nuovo Jake Sully, quando è nel suo Avatar; quando sceglie di rimanere fra i Na’vi, però, insieme alla sua compagna Neytiri, non resta nel suo corpo umano, come pure potrebbe, magari indossando la maschera che gli permetterebbe di respirare su Pandora: l’appartenenza al nuovo popolo deve passare necessariamente attraverso la scelta di un corpo nuovo, che non solo gli restituisce l’uso delle gambe, ma che lo renderà come gli indigeni, più forte di un terrestre. Paradossalmente, l’Avatar, il risultato finale di una avanzatissima tecnologia umana, è il corpo forte e possente di una creatura aliena e primitiva, intimamente legata al suo ambiente naturale, in una connessione completa, anche fisica. E con il cyborg estremo, l’ibrido Avatar, il cerchio della storia umana si chiude, tornando a una sorta di innocenza e purezza degli inizi. O forse continua, come in un percorso a spirale.

Nel film la scienza è buona, ed il male è legato all’avidità, non ad un’evoluzione tecnoscientifica incontrollata: gli scienziati terrestri sono interessati a Pandora e ai suoi abitanti per scoprirne tutto senza distruggerne niente, ma non basterà la conoscenza per diventare uno di loro, e per salvarli dall’invasione pianificata dai terrestri. I Na’vi sceglieranno istintivamente Jake, e non la scienziata Grace Augustine, che pure conosce tanto di Pandora, su cui si muove anch’essa in un corpo Avatar, e che infatti non si spiega il perché della preferenza degli indigeni per l’ignorante ex-marine: ma anche sul lontano pianeta Pandora ad essere decisivi sono i rapporti personali e le relazioni affettive, universalmente riconosciuti anche nell’affascinante ed inquietante mondo post-umano disegnato da James Cameron.