In Birmania c’è il petrolio e agli Usa non dispiace ‘toglierne’ un po’ alla Cina

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In Birmania c’è il petrolio e agli Usa non dispiace ‘toglierne’ un po’ alla Cina

07 Aprile 2012

“La Birmania è pronta a cambiare”. Ha detto Hillary Clinton quando ha incontrato Aung San Suu Kyi alla fine del 2011. Quella del Segretario di Stato è stata una visita ufficiale dal valore storico: per la prima volta in mezzo secolo il capo della diplomazia americana è stata accolta ufficialmente in un paese fino a pochi mesi fa considerato un avversario.

La visita era arrivata al termine di un periodo di grandi riforme da parte della Birmania (o Myanmar, nome che stabilito dal regime militare) che nel giro di un anno aveva sostituito la giunta militare con un governo civile, aveva liberato la leader dell’opposizione permettendole di candidarsi alle elezioni e ha concesso l’amnistia a più di 6000 prigionieri, tra cui molti detenuti politici. Dopo il recente successo della Lega nazionale per la democrazia (il partito della donna simbolo delle rivendicazioni democratiche del popolo birmano) il paese del Sud-Est asiatico sembra essere pronto ad essere riammesso a tutti gli effetti nella comunità internazionale.

Pur ripetendo che la Birmania «ha ancora molta strada da percorrere per scrollarsi di dosso decenni di dittatura militare» la Casa Bianca è pronta a ammorbidire alcune sanzioni, tra cui un divieto per le società americane di investire o di offrire servizi finanziari. Ma nonostante l’affermazione elettorale di Aung San Suu Kyi i militari resteranno al potere. Sono una casta potentissima e vorace che ha fatto i propri interessi tenendo in ostaggio il Paese e fagocitando i proventi degli accordi con Cina e India. 

Hanno lucrato sul mercato nero e sui traffici illegali potendo contare sulla protezione di cinesi e indiani. La democratizzazione dall’alto guidata dall’ex generale Thein Sein appare simile a un altro percorso di redenzione. Non è difficile fare un paragone con la storia di Muammar Gheddafi quando dichiarò ufficialmente di rinunciare al nucleare e al terrorismo in cambio della riabilitazione da parte di George W.Bush.

Da allora il Raìs venne reinserito nella comunità internazionale e continuò a governare con il pungo di ferro sulla Libia fino alla rivolta dello scorso anno. Molti analisti non nascondono il dubbio che dietro la parvenza di un governo civile si nasconda la prosecuzione del regime in forme più morbide. Thein Sein era un pilastro della giunta, tanto che nel 2007 divenne premier per sedare le rivolte dei manifestanti pro-democrazia scoppiate in diverse città del paese. I militari hanno capito che se vogliono far sopravvivere il regime, c’è bisogno di un restyling e di aprire le porte agli americani, ormai decisi a puntare tutto sull’Asia.

La Birmania è una terra ricca di opportunità economiche, uno scrigno di risorse con una popolazione rurale tra le più povere al mondo. Fino ad ora grandi affari li hanno fatti i cinesi e gli indiani. In quarant’anni di ostracismo imposto dall’Occidente, soprattutto Pechino ha stretto legami solidissimi con la giunta militare al potere dal 1962. Il legame con i cinesi si fonda soprattutto sullo sfruttamento di risorse energetiche presenti nel Paese e dalla sua posizione strategica per i traffici commerciali nel Pacifico.

La stessa Clinton ha spiegato chiaramente che per l’amministrazione Obama la priorità geopolitica è l’Estremo Oriente. Per mantenere l’influenza in un’area che vede l’ascesa economica e strategica della Cina, Washington si affida al suo strapotere militare e a una seria di accordi commerciali con i Paesi più importanti della regione. Ma utilizza anche l’apertura di grandi opportunità per le proprie multinazionali dell’energia per ridimensionare il peso economico e strategico di Pechino. In Birmania ci sono i giacimenti di gas più grandi del Sud Est asiatico e le riserve di petrolio, stimate in svariati miliardi di barili, sono una grande occasione.

Oltre al metano, all’oro nero e alle pregiate foreste tropicali di legno teak, il sottosuolo della Birmania ospita preziosi rubini e minerali ambiti dalle multinazionali straniere, tedeschi e americani in prima linea. Anche se finora Sein è stato prudente, continuando a stringere accordi commerciali e di difesa con Pechino, in una terra poverissima ci sono ancora decine di infrastrutture e servizi da costruire.
Una grandissima occasione per penetrare nel mercato di un paese che promette di trasformarsi in un prezioso scrigno.