In Cina si muore di inquinamento

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In Cina si muore di inquinamento

07 Agosto 2007

Attualmente sono cinesi otto tra le dieci città del mondo
con l’atmosfera più inquinata. Nel 2004-2005 Pechino ha avuto una
concentrazioni di polveri sottili per metro cubo di aria 10 volte superiore a
quella di New York o di Londra. Sono solo alcuni dei dati che emergono da uno
studio condotto dalla Banca Mondiale sull’inquinamento in Cina. All’indagine ha
collaborato anche il governo cinese ma, secondo un articolo del Financial Times
del 3 luglio, al momento di presentare la ricerca “Pechino ha fatto in modo di
cancellare circa un terzo del rapporto perché i risultati sulle morti premature
avrebbero potuto provocare agitazioni sociali”. Infatti il dato veramente
drammatico che il governo ha voluto nascondere è che ogni anno in Cina 750.000
persone muoiono prematuramente a causa dell’inquinamento dell’aria e
dell’acqua.

Il comunismo cinese si è aperto
da anni al libero mercato, ma continua a seguire rigorosamente molti principi e il modus
operandi
di un regime autoritario. Se infatti una multinazionale può impiantare
una fabbrica di scarpe grazie un regime normativo e fiscale iper-liberista, i
lavoratori della stessa fabbrica non possono scioperare per le durissime
condizioni di lavoro, la comunità locale non può protestare per gli scarichi
tossici nella falda acquifera, non vi sono leggi né tribunali per difendere i
diritti dei cittadini, non sono ammessi media indipendenti e tanto meno una
opposizione che possa denunciare gli abusi del governo. L’effetto di tale
sistema politico è che in questo immenso e paradossale esempio di “capitalismo
autoritario” in salsa comunista 750.000 persone l’anno muoiono senza quasi
suscitare reazioni sociali e politiche. Quasi, perché la situazione nelle
regioni orientali maggiormente industrializzate sta diventando talmente grave
che secondo lo stesso Financial Times “un numero crescente di proteste locali
in Cina negli ultimi anni è stata provocata dal degrado ambientale, di solito
contro fabbriche che hanno inquinato i terreni agricoli circostanti o le falde
acquifere”.

È opportuno chiedersi se la
comunità internazionale ed in particolare l’Occidente può fare qualcosa per
arginare tale disastro ambientale, che sta diventando anche in un certo senso
un disastro umanitario considerato che i morti si contano a centinaia di
migliaia e gli ammalati a milioni. Organismi come l’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) e la Banca Mondiale stanno facendo pressione affinché, anche
in collaborazione con il governo cinese, si indaghi scientificamente sulle
proporzioni e gli effetti del fenomeno, ed il rapporto citato ne è un primo
esempio. Ma una volta documentato che solo l’1% della popolazione urbana cinese
vive in località dove l’inquinamento dell’aria è al limite dei parametri
dell’OMS, la soluzione del problema diventa una questione politica.

Il caso ha voluto che nelle
stesse settimane della conclusione del rapporto cinese i capi di governo del G8
discutessero i targets mondiali di riduzione delle emissioni di gas serra. La
pressione europea si è concentrata sugli Stati Uniti affinché sottoscrivessero
l’obiettivo vincolante di ridurle del 50% rispetto ai livelli del 1990 entro il
2050. Alla fine del vertice Bush ha accettato solo di “prendere in seria
considerazione” questo parametro, ottenendo in cambio l’impegno che nei
negoziati globali sull’assetto post-protocollo di Kyoto fossero coinvolte anche
le maggiori economie emergenti a partire da quella cinese. Gli americani
infatti insistono sul fatto che la Cina nel 2007 sorpasserà gli Stati Uniti
come maggiore produttore mondiale di gas serra, e che mentre le emissioni dei
paesi industrializzati sono in via di stabilizzazione quelle dei grandi paesi
in via di sviluppo – Cina, India, Brasile, Messico – si prevedono in fortissima
crescita nei prossimi anni.

In un’ottica idealista, una
politica di “engagement” della Cina su tale questione sarebbe un utile
strumento di pressione affinché il governo di Pechino emani leggi che limitino
l’impatto ambientale delle produzioni industriali, investa risorse nella tutela
ambientale, e ascolti le proteste che sempre più di frequente scuotono il suo
tessuto sociale. In un’ottica realista, tale politica sarebbe ugualmente utile
perché porterebbe nell’economia cinese quei costi sociali e ambientali che le
imprese sostengono in Europa, attenuando così la fortissima concorrenza sleale
che i prodotti cinesi fanno a quelli “Made in EU”. Negli ultimi anni l’Europa
ha efficacemente assunto una posizione di leadership mondiale sul tema del
riscaldamento climatico, sostenendo in maniera unitaria la posizione più avanzata
nei fori internazionali e cercando di implementare al suo interno dei sistemi
di controllo delle emissioni più o meno efficaci. Sembra dunque avere oggi la
credibilità e la forza necessarie per spingere le altre grandi potenze verso
impegni vincolanti sul clima, e se sarà capace di sfuggire alla trappola
dell’anti-americanismo e di negoziare serratamene con Pechino ci guadagneranno
sia i cittadini europei che quelli cinesi.