In difesa di Sarah Palin e della sua essenza “reaganiana”

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In difesa di Sarah Palin e della sua essenza “reaganiana”

06 Aprile 2010

Niente dà più fastidio ai miei amici intellettuali conservatori del fatto che ricordi loro – come talvolta, perfidamente, mi accade – che il loro denigrare Sarah Palin è incredibilmente simile all’atteggiamento che i loro predecessori avevano, all’epoca, verso Ronald Reagan.

Adesso è difficile crederci, ma trentuno anni fa, dopo aver dichiarato che avrei sostenuto Reagan nella sua scommessa per la nomination repubblicana alla presidenza nel 1980, ogni amico di destra che incontravo mi chiedeva regolarmente com’era possibile che mi sentissi di associare la mia persona a quel “capello cotonato”, a quella star dei film di serie B, che era non solo stupido ma anche incompetente. Riconoscevano che le sue idee politiche erano assai vicino alle nostre, il fatto è, dicevano, che le esprime in modo talmente rozzo che avrebbe finito per comprometterle. E poi, aggiungevano, la sua preparazione è troppo limitata, non può essere certo lui a salvarci dopo la disastrosa amministrazione di Jimmy Carter.

Ora, conosco Ronald Reagan, e Sarah Palin non è Ronald Reagan. Ma ancora, la prima volta che incontrai Reagan, tutto ciò di cui parlò furono i soldi che aveva fatto risparmiare ai contribuenti cambiando il formato delle cartelline in cui venivano conservati i documenti ufficiali. Rimasi così perplesso dal suo entusiasmo per un tale risultato, che quasi mi convinsi del fatto che i miei amici avessero visto giusto, e che avevo sbagliato a dargli il mio appoggio. Alla fine, naturalmente, tutti lo avremmo considerato un grande, ma nel 1979 nessuno di noi avrebbe creduto che quella sarebbe stato il nostro comune sentire appena qualche anno più tardi.

Quel che sto cercando di dire non è che Sarah Palin sarà senz’altro un grande presidente, ma che il criterio con il quale viene giudicata da parte dei critici conservatori – l’odio spropositato di cui è fatta oggetto dalla sinistra non conta – non ci dice praticamente alcunché circa il tipo di presidente che poi, eventualmente, sarebbe. Si prenda, ad esempio, la politica estera. Vero, la Palin sembra saperne veramente poco di problemi internazionali; ma una buona esperienza in questo campo non è garanzia di buona leadership. Dopo tutto, il suo rivale alla vicepresidenza, che certo ne sapeva un bel po’, sbagliò su quasi tutte le questioni principali che si posero nei trent’anni che trascorse al Senato.

Quello che la Palin sa molto bene – e in questo assomiglia a Reagan – è che gli Stati Uniti hanno sempre agito per il bene del mondo, una cosa che Barack Obama – il cui QI è senza dubbio più alto di quello della Palin – deve ancora imparare. Anche Jimmy Carter aveva un alto QI, il che non gli impedì di diventare uno dei peggiori presidenti nella storia d’America; e così anche Bill Clinton, il che non gli impedì di insudiciare il nido presidenziale.

A differenza dei suoi nemici di sinistra, gli oppositori conservatori della Palin sono alquanto incomprensibili. Dopo tutto, a parte una maggiore intensità, la reazione della sinistra alla Palin è l’odio liberal già visto nei confronti di Richard Nixon, Reagan e George W. Bush. Era un odio che aveva poco a che fare con le differenze politiche, e molto a che fare con la convinzione secondo cui quegli uomini erano usurpatori che, dopo aver mobilitato tutti i settori più retrogradi della società americana, avevano derubato il paese delle sue giuste (cioè, liberal) leggi. Ma Sarah Palin è considerata come l’autentica incarnazione di quelle forze retrograde ancor più di Nixon, Reagan e George W. Bush, dunque potenzialmente è ancor più pericolosa.

Penso che, d’altro canto, sia proprio questa percezione che si ha di lei alla base del grande entusiasmo con cui è vista dai conservatori più genuini. I quali la vedono, giustamente, come una di loro, però più capace e meglio posizionata per opporsi al disprezzo e alla condiscendenza delle elite liberal, egregiamente esemplificate dalla famosa frase detta da Obama nel 2008 riferendosi a persone come lei: “E non sorprende che diventino più amari, e che si aggrappino alle armi, o alla religione o all’antipatia verso chi non è come loro o all’ostilità verso gli immigrati o verso il commercio, pur di trovare una via d’uscita dalle loro frustrazioni”.

Ma come spiegare l’ostilità che provano verso Sarah Palin tanti intellettuali conservatori? Non può essere una differenza di idee politiche. Perché, come osserva Bill Kristol – uno dei pochi intellettuali conservatori a spendere una buona parola per la Palin – le sue idee sono assai più vicine a quelle dei suoi critici conservatori di quanto non lo siano quelle isolazioniste e protezioniste della destra “paleoconservatrice”, o di quanto non lo sia l’irrealistico “realismo” dei repubblicani “moderati” che popolano il centro del partito.

Mi piacerebbe che la risposta risiedesse in qualche considerazione alta, però sono giunto a malincuore alla conclusione che lo stesso tipo di avversione classista che la Palin provoca nei suoi detrattori e nei suoi sostenitori stia facendo breccia anche in quell’intellettualità conservatrice nella quale il nome Palin provoca un evidente disagio. Quando William F. Buckley Jr., all’epoca redattore della National Review, pronunciò la celebre battuta secondo cui avrebbe preferito di gran lunga essere governato dai primi duemila nominativi dell’elenco telefonico di Boston, piuttosto che da duemila cattedratici delle università di Harvard e del MIT, gli intellettuali conservatori commentarono per lo più con un gioioso “amen”. Ma a vedere quello che sta accadendo adesso con la Palin, e con l’ondata populista dei Tea Party, quegli intellettuali hanno dimostrato che quella reazione non era del tutto genuina.

E’ ancora aperta la questione di quel che veramente intendesse Buckley, però non si possono avere dubbi su quel che pensa suo figlio Christopher (che ha appoggiato Obama). Si guardi a quello che scrive il grande satirista, che “blogga” con il nome di Iowahawk, raccontando in prima persona le avventure del personaggio immaginario T. Coddington Van Voorhees VII, figlio del fondatore del “National Topsider”, di cui parla come “un magazine un tempo rispettabile” controllato adesso da una masnada di “studenti statali di Neanderthal”. “Per oltre un anno,” ci dice Van Voorhees, “vi ho avvertito che … il movimento conservatore rischiava di essere abbandonato dai pochi intellettuali seri che gli restavano” – “luminari” come “i vivaci [opinionisti del Washington Post] Kathleen Parker, Dame Peggy Noonan, e quei due poderosi David della letteratura conservatrice, Frum e Brooks” – e di “essere travolto dalle inguardabili orde dei subumani da Wal-Mart esemplificati dalla disgustosa plebaglia dei Tea Party”, con il suo “infantile entusiasmo e i suoi grugniti scimmieschi. Come ora è ovvio, i fatti mi hanno dato ragione”.

Ho paura che l’atteggiamento, in questo caso enfatizzato a scopo satirico, da parte di Iowahawk, è ciò che, in definitiva, è alla base del rifiuto della Palin da parte di tanti intellettuali conservatori. Alla fine della fiera, non riescono a resistere a quello che Van Voorhees chiama “il prodigioso dono dell’oratoria che ha benedetto Obama”, né possono resistere dall’attribuire all’ “infantile entusiasmo e ai grugniti scimmieschi” della “disgustosa plebaglia dei Tea Party” il fatto che Sarah Palin si stia affermando come una formidabile forza politica.

Quanto a me, dopo aver visto cosa quel “prodigioso dono dell’oratoria” ha prodotto in un anno, sono più convinto che mai della saggezza insita in quella battuta di Buckley, nel cui spirito dichiaro qui e adesso che preferirei essere governato dai Tea Party piuttosto che dai democratici, e preferirei che fosse Sarah Palin a sedere nello Studio Ovale, piuttosto che Barack Obama.

Norman Podhoretz è stato redattore di Commentary dal 1960 al 1995. Il suo libro più recente è “Why Are Jews Liberals?” (Perché gli ebrei sono liberal?), Doubleday, 2009.