In Europa ad essere davvero in crisi è l’idea di “libero mercato”

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In Europa ad essere davvero in crisi è l’idea di “libero mercato”

25 Febbraio 2010

 L’Europa è in crisi. A prima vista, la crisi riguarda i soldi: il budget greco, il piano di bailout guidato dalla Germania, il pericolo del contagio, il rischio morale e la fragilità dell’euro. Fondamentalmente si tratta invece di una crisi di idee.

Durante il World Economic Forum a Davos del mese scorso, il premier greco George Papandreou ha offerto una visione interessante sulle radici delle sofferenze dell’Europa. “E’ un attacco all’eurozona inflitto da degli interessi diversi, politici o finanziari” ha affermato senza specificare chi o quali sarebbero tali interessi. A quanto pare, poi, il governo di Madrid ha ordinato al suo servizio di intelligence di investigare la possibile “collusione” tra media e investitori americani nata con lo scopo di deprimere l’economia spagnola.

Forse i paladini della politica spagnola e greca s’immaginano davvero che i manager degli hedge funds siedano alla Lex Luthor in tipiche sale-conferenza dalle luci soffuse – e qui immaginate di sentire le risate sinistre – e decidano per uno sghiribizzo di far crollare questa o quell’altra economia. O forse pensano che, giocando a fare i soliti disturbatori da loggione (già inclini di natura a questo tipo di fantasie), riescano a trarre dei dividendi politici dai quali ottenere un vantaggio.  

Comunque sia, la recrudescenza della politica basata sulla teoria delle cospirazioni tra governi che si suppone appartengano al "Primo mondo" è solo uno dei sintomi del malessere intellettuale dell’Europa. Dall’altra parte dello spettro c’è l’opinione che la crisi greca sia una perfetta opportunità per espandere la portata della regolamentazione e l’autorità fiscale di Bruxelles. Non importa se i problemi economici della Grecia siano evidentemente il risultato di una spesa pubblica che andava ben oltre le sue capacità e di un governo che ha fallito la promozione della crescita. Da questo punto di vista, la soluzione ideale è quella di espandere le prerogative di una burocrazia ad un livello ancora maggiore di irresponsabilità. E’ un po’ come dire che se l’unghia del tuo piede è gravemente infettata, devi considerare di farti fare un’operazione al cervello.

Ma perché gli europei si trovano così spesso intrappolati in questa sterile dialettica di oscurantismo populista e di irrilevanza tecnocratica? Principalmente perché queste sono le uniche opzioni che rimangono quando tutti gli altri metodi di analisi e tutte le altre ricette sono state escluse. L’economista francese Guy Sorman ritiene che la ragione sia determinata dal fatto che “tutte le politiche economiche europee sono dei derivati culturali di un’unica, dominante e quasi totalitaria, ideologia statalista: lo stato è buono, il mercato è cattivo”. Il libero mercato, aggiunge Sorman, è “percepito fondamentalmente come americano, mentre lo statalismo è una forma fondamentale di patriottismo”.

Negli Stati Uniti, la fiducia nell’efficienza generale dei mercati non è solo un’eredità culturale. E’ sostenuta dal lavoro fatto da degli affidabili dipartimenti economici delle università, dai think tank come la Hoover Institution e da enti che erogano borse di studio come la Kauffman Foundation, insieme ad alcune pagine editoriali pubblicate di qua e di là. Si tratta inoltre della posizione di default del Partito Repubblicano, almeno retoricamente parlando.

Al contrario, nell’Europa continentale il modello dominante della politica conservatrice talvolta è pro-impresa ma molto raramente pro-mercato. Durante i suoi 12 anni di presidenza francese, per esempio, Jacques Chirac ha inveito spesso contro l’“ultraliberlismo anglosassone”, una frase che nel tempo è diventata talmente diffusa che ha quasi oscurato il suo stupido appeal xenofobo. In Europa ci sono dei think tank ma sono praticamente tutti fondati dai partiti politici e seguono la linea di partito. Nessuna facoltà in Europa è paragonabile in modo remoto a quella di Chicago o alla George Mason. Dal 1990, solo 3 dei 36 vincitori del premio Nobel per l’economia erano membri di un’università europea.

Inoltre, ci sono i media. La scorsa settimana il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, leader dei Free Democrats, i più forti sostenitori del libero mercato in tutto il Paese, ha scritto nelle pagine del quotidiano Die Welt lamentando il fatto che i lavoratori poveri tedeschi guadagnano di meno rispetto ai destinatari del welfare. “Per troppo tempo – ha scritto Westerwelle – in Germania abbiamo perfezionato il sistema di redistribuzione del benessere dimenticando da dove viene la prosperità”.

Per le sue osservazioni banali, il ministro degli Esteri Westerwelle è stato accusato di “diffamare milioni di beneficiari del welfare” e gli è stato chiesto di scusarsi pubblicamente nei loro confronti. In Europa dev’esserci un clima intellettuale notevolmente instupidito tanto da far scoppiare tutto questo clamore per una serie di articoli. Adattandolo al welfare state del XXI° secolo, è una specie di impero dei “vestiti nuovi dell’imperatore” (il riferimento è alla fiaba scritta da Hans Christian Andersen ma lo scopo della frase è quello di denunciare una situazione in cui una maggioranza di osservatori sceglie volontariamente di non discutere su fatti ovvi e che sono sotto gli occhi di tutti, fingendo di non vederli, ndt). 

Tutto ciò è ancora più rimarchevole se si considera che i travagli economici europei non sono neanche poi tanto difficili da capire. La Grecia, in parole povere? Secondo l’economista di Harvard Alberto Alesina, in questo Paese ottenere tutti i permessi per aprire una nuova attività costa 10.218 dollari contro i 166 dollari degli Stati Uniti. Ma le tirannidi del pensiero sono difficili da abbattere, specialmente quando i beneficiari della generosità statale – dagli studenti universitari ai dipendenti pubblici e ai capitani delle industrie che ricevono sussidi statali – diventano la maggioranza politica. Gli Stati Uniti forse stanno affrontando questa questione proprio ora.

Ma c’è una via d’uscita a tutto ciò? “Sono profondamente convinto che appartengo anch’io alla tradizione che abbraccia l’idea di libertà contro lo Stato, quella che vanta di un buon pedigree: Montesquieu, Tocqueville, Jean Baptiste Say, Jacques Rueff, Raymond Aron, Jean-Francois Revel”, afferma l’economista francese Sorman. Tra di loro, neanche un nome anglosassone. La ripresa europea – e il recupero dell’Europa – verrà solo quando questi personaggi non saranno più profeti senza onore nella loro propria terra.

Tratto da Wall Street Journal

Traduzione di Fabrizia B. Maggi