In Francia non c’è più posto per le “gabbie di stoffa”
26 Aprile 2011
Nella mezzanotte di lunedì 11 aprile è entrato in vigore in Francia il divieto di indossare il velo integrale nei luoghi pubblici. In genere chiamato “burqa” in Occidente, tale indumento, che scherma gli occhi con una retina di stoffa e copre tutto il corpo, fa riferimento unicamente alla tradizione afghana. Invece è tecnicamente il niqab, che lascia visibili solo gli occhi, ad essere presente anche da noi. Già nel 2004 la République aveva promulgato una norma che vieta nei luoghi pubblici l’“ostentazione” dei simboli religiosi, tra i quali era stato incluso lo hijab, il velo islamico più comune, che lascia scoperto il viso. Oggi la polemica si è ripresentata con la nuova legge, che era stata approvata l’11 ottobre 2010: una bagarre tra strumentali rivendicazioni di libertà religiosa (anche se il velo integrale non è previsto dal Corano), diritti delle donne, laicità e sicurezza, valori occidentali e valori islamici.
Il testo prevede multe fino a 150 euro per chi indossa burqa o niqab e la sanzione pecuniaria può essere accompagnata dall’obbligo di frequentare un corso di cittadinanza francese. Quando sono gli uomini ad imporre il velo ad una donna, l’ammenda può raggiungere i 30mila euro, che raddoppiano a 60mila e due anni di carcere, nel caso in cui tali “gabbie di stoffa” siano imposte ad una minorenne. Erano circa 2.000 le donne musulmane francesi che lo indossavano e perlopiù si trattava di convertite all’islam. La norma ha scatenato prevedibili proteste nel Paese, che fa da apripista in Europa con una legge di questo tipo ed ospita la comunità musulmana più numerosa del Vecchio Continente: tra 4 e i 6 milioni di persone. Il 12 aprile si sono radunati gruppi di musulmani e musulmane nella Piazza antistante al simbolo della cristianità francese, Notre Dame (si ricordi la “preghiera” islamica in Piazza Duomo a Milano nel gennaio 2009) e la polizia ha fermato una ventina di donne in niqab per manifestazione non autorizzata. “Non ho intenzione di togliermi il burqa, pagherò la multa tutte le volte che è necessario”, ha dichiarato Newal, una delle arrestate. Stessa sfida lanciata da Kenza Drider, 32 anni, 13 dei quali passati integralmente velata, fotografata e ripresa dalle tv di tutto il mondo, mentre saliva sul treno da Avignone a Parigi: “La legge infrange i miei diritti europei: non posso che difenderli”, ha affermato.
Dura la Islamic Human Rights Commission di Londra, che senza mezzi termini ha definito la legge francese “un nuovo passo verso il fascismo di Stato”. Non potevano mancare di dire la loro i Fratelli Musulmani che, minacciosi, hanno parlato di “atteggiamento da neo-crociata”, “l’inizio di una pericolosa battaglia”. Condotta sulla testa delle donne. Ma è necessario che l’Europa, in questo campo, prenda esempio dalla Francia, che nella nuova norma, più che le donne, punisce gli uomini che impongono loro il velo. Non c’è dunque strumentalizzazione che tenga, da parte degli estremisti islamici: né della Costituzione, la quale garantisce la libertà religiosa, né della democrazia in generale. Anche in Italia c’è chi si batte per un provvedimento analogo contro il velo integrale, come Souad Sbai, parlamentare di origine marocchina e Presidente dell’Associazione delle Comunità delle Donne Marocchine in Italia (ACMID-DONNA) che, già un paio di anni fa, affermava: “Dobbiamo salvare le donne che vivono quotidianamente questo inferno, segregate, isolate. Nessuno le avvicinerà mai, non ci sarà mai per loro una possibilità di riscatto in quelle condizioni. La legge contro il burqa ha la stessa valenza della legge contro l’infibulazione”. La Sbai chiede alle donne di sinistra, che difendono burqa e niqab, di prendere coscienza che “non sono le donne islamiche a decidere di stare dietro quella grata, se non si mettono il burqa le donne non escono di casa, vengono picchiate e i mariti adesso non fanno rinnovare loro i permessi di soggiorno, così diventano clandestine e non li possono denunciare. Le donne italiane devono farsi un esame di coscienza, andare a conoscere quelle straniere costrette a portare il burqa e leggere quello che accade nel mondo a chi non vuole portare questi indumenti".
Insieme a Manlio Contento, un altro deputato del Pdl, la Sbai ha dunque presentato una proposta di legge che modifica l’articolo 5 della norma 152 del 22 maggio 1975 sull’ordine pubblico, il quale vieta “l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo” e si applica anche agli indumenti. La proposta estende l’impedimento di coprirsi il volto al velo integrale: “È altresì vietato, al fine di cui al primo periodo, l’utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab”. Il carcere, come ha suggerito la Lega, per chi li indossa (fino a 2 anni di reclusione e una multa fino a 2mila euro)? “Meglio darlo ai mariti”, ha affermato la Sbai. Perché la dignità della persona, della donna, non può essere ridotta a una questione di mera sicurezza. A dimostrarlo recentissimi casi (fra quelli conosciuti) di maltrattamenti ai danni di ragazze musulmane pakistane: Jamila, nome di fantasia, vive a Brescia e per due settimane non ha frequentato la scuola, perché considerata dai fratelli (il padre è morto due anni fa) “troppo bella” e perché promessa a un cugino benestante in Pakistan. Il tutto sia stato architettato per ricavare i soldi per pagare il mutuo di casa. Una tredicenne pakistana di Parma è stata riempita di botte dal padre, perché la corteggiavano. Oltretutto il dirigente scolastico e gli insegnanti hanno deciso di non rivolgersi alle autorità e parlare con i genitori per evitare che la figlia venisse tolta loro. La mente non può non correre a Hina, altra pakistana del bresciano, sgozzata dal padre nel 2006, ufficialmente perché “voleva vivere all’occidentale”, aveva un fidanzato italiano con cui viveva e rifiutava le nozze con un cugino nella patria d’origine: in realtà l’uomo voleva lavare l’onta di essere stato denunciato dalla figlia per molestie sessuali e salvare la faccia di fronte alla propria comunità. La memoria non può non ricordare Sanaa, marocchina della provincia di Pordenone, a sua volta sgozzata dal padre nel 2009, perché voleva vivere libera e conviveva con il fidanzato italiano, anche per sfuggire al padre-padrone.