In Inghilterra il suicidio assistito comincia a trovare cittadinanza

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In Inghilterra il suicidio assistito comincia a trovare cittadinanza

03 Marzo 2010

Oltre Manica si riapre il dibattito sull’eutanasia. Lo scorso 25 febbraio la Gran Bretagna ha elaborato nuove linee guida sulla morte assistita, che resta un reato grave ma con alcune eccezioni che consentono al giudice di pronunciarsi con ampia discrezione e, nel caso, scegliere di non procedere contro chi è accusato di aver provocato la “dolce morte” di una persona. A stilare le nuove indicazioni è stato Keir Starmer, direttore dei procuratori d’accusa per Inghilterra e Galles, che ha introdotto 13 attenuanti, tra cui la “compassione” di chi ha provocato la morte assistita di una persona cara. In 16 punti, invece, vengono descritti i casi in cui il giudice è chiamato a intervenire contro chi ha compiuto l’atto.

Gli elementi che determinerebbero il pubblico interesse a procedere sono: la minore età della vittima, l’incapacità di intendere e di volere a causa del suo stato di salute fisica o mentale; la mancata espressione di un chiaro, consapevole e informato desidero di subire la morte assistita; qualora non fosse affetta da una malattia terminale, né una disabilità fisica incurabile, né una grave condizione fisica degenerativa. Passando, invece, dalla parte del sospettato: se questo non avesse agito completamente mosso da compassione, se avesse persuaso, pressato o incoraggiato la vittima a commettere il suicidio assistito o ha impropriamente influenzato la vittima a deciderlo; se il sospettato in questione fosse sconosciuto alla vittima o membro di un’organizzazione o di un gruppo il cui principale scopo è provvedere al sostegno fisico per permettere a qualcun altro di compiere il suicidio; o, ancora, se fosse stato pagato dalla vittima o da qualcun altro vicino per assisterla.

Le nuove linee guida di Starmer – la risposta a una richiesta di delucidazioni sulle norme vigenti richiesta dai Law Lords, la massima istanza giudiziaria britannica – giungono in un momento in cui due casi emblematici sono all’attenzione dei media: quello di Debbie Purdy, una donna affetta da sclerosi multipla che chiede venga concesso al marito di praticarle la morte assistita senza conseguenze penali, e quello di Ray Gosling, il presentatore televisivo della Bbc, arrestato qualche giorno fa per aver confessato in diretta tv di aver soffocato molti anni fa il compagno, malato terminale di Aids e consenziente all’atto. Un gesto di amore e compassione, lo ha definito il presentatore.

Attenendosi a queste direttive, ogni morte assistita, verrà valutata caso per caso, andando ad indagare nella mente di chi ha compiuto l’atto. “La politica è ora di focalizzare la motivazione del sospettato piuttosto che le caratteristiche della vittima”, ha affermato Starmer, ma “non cambia la legge né apre le porte all’eutanasia”, quanto affida al giudice “la discrezione di decidere se è nel pubblico interesse procedere”. Pur affermando che l’eutanasia resta un reato, le guidelines distinguono tra “omicidio buono” e “omicidio crudele”.

Immediate le reazioni dell’opinione pubblica e della comunità scientifica. Mentre Sarah Wootton, capo esecutivo del Dignity in Dying, ha definito le linee guida in questione “una vittoria per il senso comune e la compassione”, Paul Tully, esponente del gruppo contro l’eutanasia SPUC Pro-Life, ha affermato che questo nuovo progetto “tende effettivamente a depenalizzare il suicidio assistito in alcuni casi”. Lo scrittore Terry Pratchett, che soffre di Alzheimer dal 2007, ha giudicato le direttive come “la cosa migliore che si potesse fare senza modificare la legge”. La stessa Debbie Purdy ha ribadito che nelle linee guida si fa un esplicito discrimine tra “chi maliziosamente incoraggia e chi supporta con compassione la decisione della vittima”.  

La Chiesa inglese, da parte sua, tenta di remare contro il progetto invitando familiari e cari a desistere, sostenendo che le guidelines in realtà “non assicurano totale immunità dalla pena, nonostante diano il permesso di ‘infrangere la legge’ nei casi specificati”. Aggiunge che il miglior modo di mostrare compassione agli interessati è “dare loro amore, sostegno e le migliori cure mediche e non adeguarsi allla richiesta di suicidio assistito”, e tuona che “compassione non significa sempre dire ‘sì’”.

Dal 1961 assistere una persona che vuole mettere fine alla propria vita è in Gran Bretagna un reato che prevede una pena fino a 14 anni di reclusione. Nell’ultimo decennio circa 100 britannici malati terminali hanno scelto di morire all’estero, in strutture come la clinica Dignitas in Svizzera: nessuno dei loro parenti o amici coinvolti nella loro fine è mai finito in tribunale: questo perché la stessa legge dà discrezionalità ai magistrati. Mentre nel nostro Paese l’argomento è ancora un tabù, in Inghilterra il suicidio assistito, insomma, comincia a trovare cittadinanza.