In Iraq abbiamo voltato pagina, e i Democratici lo ignorano

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In Iraq abbiamo voltato pagina, e i Democratici lo ignorano

27 Aprile 2007

di Charles Krauthammer

Il dibattito negli Stati Uniti sulla guerra in Iraq si discosta sempre più da quanto effettivamente si verifica sul campo. Anche se può non sembrare, i democratici in Congresso sono così ostinati nella ricerca di un accordo fra le diverse correnti interne sulla formula linguistica cui ricorrere per far fallire la nuova strategia militare dell’amministrazione Bush, da omettere quasi completamente nei loro discorsi i primi risultati tangibili di quella stessa strategia.

E si tratta davvero di risultati tangibili. Lo scenario principale ora è circoscritto ai due fronti dove sono schierate le truppe americane: la provincia di Anbar e Baghdad.

Le notizie provenienti da Anbar sono le più promettenti. Solo la scorsa primavera, i vertici dell’intelligence dei Marines credevano che contro al Qaeda ormai era tutto perduto. Ma questa settimana, proprio il comandante dei Marines, il generale James Conway, di ritorno da una visita di quattro giorni nella provincia, ha testualmente dichiarato: “Abbiamo voltato pagina”.

Perchè? Come ha scritto il colonnello David Kilcullen, consigliere australiano esperto in controinsurrezione del generale David Petraeus, quattordici dei diciotto leader tribali della provincia di Anbar si sono rivoltati contro al Qaeda. Di conseguenza, migliaia di sunniti stanno affollando le stazioni di polizia, dove nessuno li aveva mai visti prima, per essere reclutati. Per la prima volta, Ramadi, uno dei centri principali dell’insurrezione, ha una polizia sunnita che combatte sul serio al nostro fianco.

Il generale in pensione Barry McCaffrey, tra quelli più critici della conduzione della guerra da parte di Bush, ora riferisce che ad Anbar Al Qaeda “sta fronteggiando la crescente opposizione delle tribù sunnite” e che “è in corso una battaglia cruciale che al momento sta volgendo a nostro favore”.

La situazione a Baghdad presenta, invece, dei chiaroscuri. Gli attacchi di giovedì al ponte e alla Green Zone hanno confermato l’abilità degli insorti di colpire in luoghi particolarmente sensibili. D’altro canto, però, la stabilizzazione va avanti. “Per gli occidentali nessun posto è sicuro”, riporta il 3 aprile Terry McCarthy della ABC, “ma nelle scorse settimane abbiamo visitato cinque diversi quartieri dove gli abitanti ci hanno detto che la vita sta lentamente ritornando alla normalità”. Si tratta di Jadriyah, Karrada, Zayouna, Zawra Park e della famigerata Haifa Street, prima meglio conosciuta come la via dei cecchini. McCarthy dice che “i bambini sono tornati a giocare nelle strade” e che “i negozianti hanno ripreso il loro posto nei mercati”. E conclude: “Nessuno sa se queste piccole oasi di sicurezza si espanderanno o se verranno nuovamente travolte dalla violenza. Per adesso, la gente è felice di condurre una vita quasi normale”.

Alla stessa maniera, Fouad Ajami, alla luce del suo settimo viaggio in Iraq, è cautamente ottimista e spiega che il cambiamento in corso è dovuto principalmente alla sconfitta subita dai sunniti nella battaglia di Baghdad. Questi hanno dato vita a una campagna terroristica indiscriminata nella presunzione che avrebbe facilmente intimorito gli sciiti, considerati arrendevoli per natura e inferiori.    

Invece, dopo il bombardamento di Samarra del febbraio 2006, hanno potuto sperimentare la rabbia degli sciiti con la spietata sequela di rapimenti, omicidi e azioni di pulizia confessionale che ha fatto di Baghdad una città prevalentemente sciita. Ora a Baghdad, Petraeus e le sue truppe stanno cercando di rendere definitiva la sconfitta degli insorti sunniti e di mettere allo stesso tempo fuori causa le feroci milizie sciite.

A questo punto, i democratici, con appena la metà dei rinforzi schierata, come possono pretendere che gli Stati Uniti si arrendano? Si giustificano dicendo di comportarsi nel rispetto del mandato ricevuto dagli elettori lo scorso novembre. Ma la conquista della maggioranza di un solo voto, frutto delle vittorie sul filo di lana in Montana e in Virginia, non può essere considerata un pieno successo.

Poi, se proprio l’elettorato ha voluto lanciare un messaggio inequivocabile contro la guerra, come mai il senatore Joe Lieberman, uno dei supporter più convinti dell’intervento, ha vinto a mani basse in uno degli stati più liberal del paese?

E infine, dove sta questo mandato per il ritiro? Quasi nessun candidato democratico ha sfruttato l’argomento in campagna elettorale, dove, piuttosto, hanno posto l’accento sulla necessità d’invertire il corso della politica che l’amministrazione ha seguito fino al mese di novembre. Cosa che il presidente Bush ha fatto, cambiando il vertice civile del Dipartimento della Difesa, il vertice militare del Comando Centrale e, il più importante, quello del comando in Iraq con la nomina di Petraeus, approvata unanimemente dal Senato, per mettere in moto una nuova strategia controinsurrezionale.    

John McCain non si è illuso all’inizio sulle difficoltà che avremmo incontrato nella guerra e s’illude tanto meno adesso. Nel discorso forte e coraggioso pronunciato al Virginia Military Institute a difesa dello sforzo bellico, ha illustrato i progressi effettuati sul campo nella consapevolezza delle enormi insidie che si prospettano per il futuro. Ripetendo che la vittoria in Iraq è ancora possibile oltre che necessaria, McCain ha messo in chiaro che in vista della campagna per le presidenziali intende scommettere su una guerra che è impopolare ma necessaria per la sicurezza del paese. Quanti candidati alla Casa Bianca – a cominciare da Hillary Clinton – avrebbero agito con lo stesso spirito?

*Charles Krauthammer è tra i padri del pensiero neoconservatore. Premio Pulitzer nel 1987 e già nel direttivo della rivista The National Interest, è editorialista del Washington Post, del Time magazine e del Weekly Standard.

 © Washington Post