In Iraq non si può parlare di successi militari senza aver ottenuto successi politici

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In Iraq non si può parlare di successi militari senza aver ottenuto successi politici

27 Novembre 2007

Prendo spunto dalla pacata disputa con Alia Nardini per chiarire meglio alcuni punti riguardo alla guerra in Iraq. Ne approfitto insomma per affinare il discorso sulla “guerra di controinsorgenza” (COIN).

Non era mia intenzione riprendere il dibattito novecentesco di matrice neokantiana sullo statuto delle scienze sociali, sul rapporto tra “fatti” e “valori”, o tra “essere” e “dover essere” di kelseniana memoria. E nemmeno contrapporre posizioni realistiche a scelte idealistiche. Non perché questo lato della discussione, che periodicamente torna alla ribalta, non sia importante, ma veramente non era mia intenzione. Ancor meno entrare nel merito del diritto internazionale, dove non ho nessuna competenza, se non per capire che è da trenta anni – per lo meno dalla conferenza di Helsinki – che stiamo assistendo a delle trasformazioni profonde a livello politico, diplomatico e di sensibilità culturale con la comparsa dell’idea del “diritto di ingerenza” per tutelare la libertà altrui. Tutte trasformazioni che il diritto internazionale, e di guerra, deve ripensare e tradurre in categorie giuridiche.

L’unica mia volontà consisteva nel cercare di mettere a fuoco che cosa sia successo in Iraq dopo l’invasione e la conseguente deposizione di Saddam. Al centro insomma c’è il tema di che cosa non abbia funzionato, detto altrimenti: perché è avvenuta una guerra di tutti contro tutti e perchè gli americani ci hanno messo quattro lunghi anni per trovare con Petraeus una strategia? E, quindi, è vincente la nuova condotta militare? Penso che  si sia d’accordo nel riconoscere la centralità e fondatezza di codeste questioni.

Per essere chiari. Ritengo che gli Stati Uniti abbiano commesso una serie di errori politici impressionanti e tre in primo luogo. Il primo, mancanza di conoscenza della situazione irachena; il secondo, scelta della guerra leggera di Rumsfeld; e, in ultimo, assenza di una adeguata dottrina COIN. Quello che è completamente mancata insomma è la politica del senso vero e proprio del termine. Non è in sé sbagliato voler costruire la democrazia. Quello che è sbagliato è volerlo fare subito senza nessun riguardo e comprensione della situazione; non sarebbe stato meglio garantire la sicurezza dei cittadini, controllare il territorio invece di indire elezioni che hanno prodotto governi incapaci di dirimere qualsiasi tema caldo, dal federalismo alla distribuzione delle risorse petrolifere? Credo insomma che la tanto sbandierata dottrina dell’esportazione della democrazia abbia nascosto un pauroso vuoto di idee concrete fino a svolgere il ruolo di velo, a funzionare da ideologia nel senso di costruzione di una “ falsa coscienza” atta a mascherare i fatti.

Per quanto riguarda la natura della COIN. In questo tipo di guerre, la politica occupa uno spazio enorme. Diversamente dai conflitti tradizionali, la politica interviene durante la guerra, dentro il tempo di essa, nel suo mentre sia sul piano strategico che su quello tattico operativo. Qui sta la vera differenza: se il centro di gravità per entrambi i contendenti è la conquista della popolazione, è ovvio che le armi da sole non siano sufficienti; non si tratta insomma solo di imparare tecniche di contro terrorismo, di come rispondere alle auto bomba. Sul terreno delle “menti e dei cuori” la politica è altrettanto, se non di più importante, dei fucili. L’obiettivo di separare la popolazione dagli insorgenti si raggiunge soltanto se la sicurezza è garantita, se il territorio è pacificato, se le forze COIN sono capaci più degli insorgenti di  soddisfare i bisogni della gente, se la popolazione fornisce informazioni sulle forze degli insorti. Se in conclusione la COIN è capace di conquistarne la fiducia. Ecco è la lezione di tutte le guerre asimmetriche. E’ su questo terreno che Petraeus  ha vinto, o sta vincendo, proprio perché gli americani si sono dimostrati in grado di comprendere i bisogni delle tribù sunnite contro Al Qaida, si veda ad esempio la conferma dei diritti della tribù sulle proprie donne contro i matrimoni misti voluti guerriglieri alqaidisti, anche grazie al comportamento selvaggio e psicopatico dei militanti fondamentalisti che sono riusciti ad alienarsi la maggioranza della popolazione.

Ma ancora tutto questo non è sufficiente. La politica interviene anche su di un altro piano, quello nazionale. Nessuna soluzione locale è possibile, nessuna pacificazione può alla lunga reggere se non è individuata anche una soluzione politica generale e in accordo con lo spirito dei tempi. Non importa sottolineare inoltre come le scelte politiche sui due livelli, quello statale e quello locale, devono accordarsi ed essere coerenti (per questo gli esperti di COIN tanta attenzione mettono sull’unitarietà e concordia del comando civile e militare).

Come si vede, anch’io non esito a vedere i risultati positivi della nuova situazione irachena, ma non mi sembra che ancora basti. Ancora non vedo infatti l’indicazione di nessuna via di uscita a livello nazionale. “La questione è adesso quale sarà il prossimo passo? La surge ha avuto successo militarmente, ma è lontana da un completo successo politico a causa di nessun progresso verso la pacificazione. Anbar è pacifica, ma Bassora è sottoposta sempre di più al racket dei vari signori della guerra sciiti. Non vi è nessuna legge per la spartizione del petrolio, nessun piano per rimediare alla debaathificazione, nessun progresso verso la costruzione di una polizia completamente integrata, nessun piano per il federalismo che tenga assieme le aspirazioni etniche e regionali irachene mentre lo preserva dalla dissoluzione…La surge ha creato un’opportunità da cogliere e noi ora dobbiamo afferrarla” (Los Angeles Times del 12 novembre 2007).

Perché se così non fosse, si avvererebbe un’altra legge aurea della guerre asimmetriche, la differente percezione del tempo fra insorgenti e contro insorgenti. Se questi ultimi dispongono di tutto il tempo e della pazienza che sono necessari a non vincere, ma a scoraggiare il nemico, la COIN condotta da un paese occidentale deve vincere e per le democrazie il tempo è una risorsa scarsa. Se gli Stati Uniti non vengono a capo presto del nodo iracheno, né gli americani né il popolo iracheno tollereranno più a lungo questa situazione.

Non si può vincere militarmente e perdere politicamente. Le azioni militari si misurano dai risultati politici.