In Iraq si spacca il fronte terrorista e Bush non vuole il ritiro
23 Agosto 2007
La guerra al terrorismo è una guerra sporca e difficile come lo sono tutte. Una guerra irta di controversie, colma di contraddizioni, piena di controsensi. Ma chi non perde occasione per definire l’impegno militare statunitense in Iraq un clamoroso fallimento, e la politica estera della Casa Bianca una comparsata tragicomica, puntando il dito contro gli scarsi risultati a cui quel colossale sforzo bellico è pervenuto rispetto alle aspettative (e alle promesse) iniziali, ma dimenticando sin troppo disinvoltamente che il regime criminale di Saddam Hussein comunque non esiste più, da oggi dovrebbe cominciare a ricredersi. Pare infatti che ciò che rimane sul campo della vecchia guardia saddamita abbia deciso di cambiare fronte e di lasciare la guerriglia terroristica di Al Qaeda (guidata in Iraq da Abu Mussa al Zarkqawi) al proprio destino. Certo, la notizia va confermata, e le reali intenzioni di Izzat Ibrahim al Douri, l’ultimo rappresentante del vecchio partito Baath oggi latitante, vanno tutte verificate: ma se questa volta non sarà come quando troppo frettolosamente e trionfalisticamente si annunciò, subito dopo lo scoppio della guerra, l’inesistente defezione di Tariq Aziz, la svolta potrebbe essere decisiva. E sarebbe ben difficile, una volta che l’“ultimo giapponese” del vecchio regime dispotico iracheno avesse davvero rotto con i jihadisti, continuare ad accusare il presidente George W. Bush di perdere tempo, di sprecare denaro, ma soprattutto di seguire linee politiche fallimentari. A quel punto, infatti, il capitolo iracheno della guerra al terrorismo islamista internazionale avrebbe registrato un successo, un grandioso successo.
Dopo aver definitivamente cancellato il regime iracheno (e la sua minaccia di un’alleanza strategica con Al Qaida in sostituzione dello sconfitto governo talebano dell’Afghanistan), l’intervento armato statunitense sarebbe cioè così riuscito pure a dividere e a confondere il fronte nemico. E se si pensa che buona parte della violenza scatenata nel mondo dal terrorismo islamista risponde anzitutto a una logica di “guerra civile” interna allo stesso universo islamico fra ultrafondamentalisti e “laici”, fra “moderati” ed estremisti, questo sarebbe davvero un risultato straordinario. Al quale peraltro se ne aggiunge subito un altro.
Ieri, infatti, alla notizia della probabile defezione di al Douri dal fronte terroristico (e quindi della sua probabile disponibilità a trattare con il governo iracheno e addirittura con la Casa Bianca) se ne è subito sovrapposta un’altra. Parlando a un raduno di veterani di guerra a Kansas City, nel Missouri, Bush è tornato ancora una volta, ma con un incisività che non si notava da tempo, a ribadire la futilità, anzi la dannosità, del ritiro dei soldati dall’Iraq. Una riposta, certo, alle molte voci che invocano l’attuazione immediata di questa misura drastica, ma anche una lezione di politica estera fuori dal comune. Bush ha infatti paragonato la questione irachena al famoso e famigerato pantano vietnamita, ma invertendo il segno delle consuete valutazioni. Per il presidente, infatti, il ritiro, ignominioso e affrettato, degli americani dall’Indocina più di 30 anni fa fu una catastrofe, pagata a caro prezzo da milioni di’innocenti; quindi quell’errore clamoroso non dev’essere ripetuto oggi in Medio Oriente. Parole dure e decise, le sue, che non si sentivano da tempo, certamente non dalla Casa Bianca. Paragonando, ma paragonando così, l’Iraq al Vietnam, Bush ha dunque impresso una svolta importante nella mentalità da cui nascono le iniziative statunitensi di politica estera, in primis quelle belliche. Non basta il contenimento del nemico, insomma, non basta l’equilibrio deterrente delle forze in campo, non serve mai cedere un po’ per non perdere del tutto. Occorre invece vincere. Soprattutto quando la posta in gioco e alta e quando le conseguenze possono essere ancora più gravi dei mali attuali. E vincere probabilmente ora si può, come dimostrano i successi, pur a lungo termine e sudati, che la strategia USA ottiene passin passino. Cosa, questa, che peraltro indica anche una certa presa, realistica, di distanze dal governo iracheno guidato di Nouri al Maliki, giudicato forse non in grado di tenere a bada l’esplosiva situazione in cui versa il Paese. Gli americani, insomma, sono necessari in Iraq, dice Bush, e gli americani in Iraq resteranno. Pioveranno critiche, si scateneranno le calunnie, ma la Casa Bianca non desiste. A Bush interessa ben poco fare il gendarme del mondo, come invece molti affermano. Interessa non passare alla storia come un presidente che ha compiuto gli stessi errori, anzi oggi ancora più gravi, di certi suoi predecessori, suo padre compreso. E questa è una filosofia politica, che taglia trasversalmente l’antico, e a volte annoso, dibattito fra interventisti e isolazionisti, soi-disant realisti e falchi, rimescolando le carte in base a una concezione della politica estera tipica della tradizione che lega Barry M. Goldwater a Ronald W. Reagan e che giunge oggi, felicemente, pure a Bush jr.
L’interventismo e l’isolazionismo sono insomma misure elastiche, graduali e dinamiche, che debbono sempre fare i conti con la realtà. Oggi la guerra al terrorismo impone di non ripetere più l’errore con cui nel 1975 si mandarono al macello milioni di vietnamiti e di cambogiani, pregiudicando pure gravemente l’intero scenario internazionale. Questo era chiaro a diversi analisti da tempo, ma solo ora, con una limpidezza che ha pochi precedenti, lo afferma apertamente la Casa Bianca. Bush, insomma, è se stesso più che mai, e saldamente in sella; ma, soprattutto, ha aggiunto al proprio capitale un altro elemento con cui essere ricordato a futura memoria. Sono svolte decise come queste che hanno caratterizzato la presidenza Bush e saranno queste che lo faranno entrare nei libri si storia come stateman e come leader.
marcorespinti@hotmail.it