In Iraq stop alle combat mission ma non al coinvolgimento americano

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In Iraq stop alle combat mission ma non al coinvolgimento americano

03 Settembre 2010

Si è conclusa con il definitivo rientro dall’Iraq della 4° Brigata Stryker, 2° Divisione di Fanteria, la seconda fase della guerra in Iraq. Ma come per la prima, terminata con il famoso discorso dell’allora presidente George W. Bush a bordo della portaerei USS Abraham Lincoln il 1 maggio 2003, anche a questa fase ne seguirà un’altra che richiederà un forte impegno da parte degli Stati Uniti. Lo ha riconosciuto persino il presidente Obama nel suo discorso dallo studio ovale della Casa Bianca il 31 agosto scorso. Pur avendo celebrato la fine della “combat mission” e dell’operazione “Iraqi Freedom”, Obama ha ribadito che l’impegno dell’America in Iraq non è concluso, a partire da quello militare. Non solo rimarrà un contingente di 50.000 soldati, ma verrà praticamente raddoppiata la presenza di contractors privati (che diventeranno oltre 7.000) per contribuire alla sicurezza del personale americano dopo il ritiro delle truppe. Peraltro, come ha fatto notare Kenneth M. Pollack della Brookings Institution, “dei 50.000 militari americani che rimarranno in Iraq, la maggioranza sono ancora combat troops, hanno semplicemente cambiato nome. Non verranno più chiamate brigade combat teams bensì advisory and assistance brigades, ma – conclude Pollack – una rosa è sempre una rosa comunque la si chiami”.

In effetti i compiti del personale rimasto non saranno molto diversi da quelli che già attualmente svolgono i militari americani. Continueranno ad accompagnare le unità irachene nelle loro missioni, anche se solo come advisors, così come l’aviazione americana non smetterà di fornire il supporto aereo alle unità di terra irachene e le Special Forces statunitensi continueranno a dare la caccia ai terroristi. Certo, il numero delle truppe sul suolo iracheno si riduce, ma di sicuro non grazie alle scelte di Obama, ma al fatto che negli ultimi 12/18 mesi il livello della violenza in Iraq è sceso ai minimi dal 2003, e questo grazie all’azione degli uomini sul campo ed al famoso surge, tanto voluto dal presidente Bush quanto osteggiato dall’allora senatore Obama. Per questo suonano davvero imbarazzanti le parole del vice presidente Biden, il quale ha candidamente dichiarato che la pace e la stabilità dell’Iraq sono “uno dei grandi risultati ottenuti dall’Amministrazione Obama”, tanto più se si considera che il “piano” del presidente in realtà altro non è che il SOFA (Status of Forces Agreement) siglato da Bush e al-Maliki alla fine del 2008. Nulla che non fosse già ampiamente previsto, quindi, ma si sa quando in politica c’è da prendersi il merito di qualcosa ci si dimentica spesso della realtà dei fatti.

Tuttavia, ciò che deve preoccupare è il fatto che pur di poter dire “abbiamo messo fine alla guerra” non si guarda alla situazione sul campo. Come ha scritto Ryan C. Crocker, ambasciatore americano in Iraq dal 2007 al 2009, “la nostra mancanza di pazienza strategica è qualcosa che ormai i nostri nemici hanno imparato a mettere nel conto, ed i nostri alleati hanno imparato a temere”. Se è vero, infatti, che la violenza è al punto più basso dal 2003, è però innegabile che la situazione è ancora molto fluida. I recenti attacchi (l’ultimo in ordine di tempo, il 25 agosto scorso, ha fatto 13 vittime a Baghdad) dimostrano che la minaccia terroristica è ancora reale, anche se è stata molto ridimensionata. Ma ci sono anche altri elementi che devono destare preoccupazione. Innanzitutto il ruolo dei paesi vicini, in particolare di Siria ed Iran, che non aspettano altro che gli Stati Uniti si ritirino per aumentare le pressioni (già fortissime) sul debole governo iracheno, per non parlare del fatto che quest’ultimo è ancora vacante da marzo, visto che dopo le elezioni non si è ancora riusciti a formarne uno, della situazione economica difficile, della questione dei rifugiati, delle tensioni etniche, della crescente corruzione, tanto per citare quelle che reclamano le maggiori attenzioni. Tutti queste questioni richiederanno tempo per essere risolte, e soprattutto richiederanno la presenza attiva del partner americano. Il problema è che, a quanto pare, da un po’ di tempo l’orologio di Washington corre più velocemente di quello di Baghdad.