In Italia la crisi si trasmetterà dall’economia reale alla finanza

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In Italia la crisi si trasmetterà dall’economia reale alla finanza

In Italia la crisi si trasmetterà dall’economia reale alla finanza

22 Maggio 2009

 

Se siamo di fronte o meno alla grande crisi del secolo è una domanda a cui nessuna sa in realtà rispondere. Quello che però è certo è che nel prossimo biennio le economie industriali dovranno affrontare la peggiore recessione dal secondo dopoguerra. Una decrescita del prodotto mondiale del 2% è un fatto di proporzioni davvero enormi. Così come con un Pil negativo che sfiora il 6%, l’Europa, insieme alla Germania, la sua locomotiva, dovrà affrontare momenti davvero difficili. Se a questo si aggiungono condizioni di finanza pubblica in fronte stress in tutti i paesi dell’Unione e sistemi bancari che drenano ulteriori risorse pubbliche, la tenuta generale del capitalismo sociale europeo sarà messo a dura prova.

In questo scenario l’Italia sta un po’ meglio degli altri. Alcuni dati strutturali sono noti. Un debito delle famiglie inferiore a quello degli altri paesi industriali; un tasso di risparmio inferire solo al Giappone; una patrimonializzazione media delle famiglie tra le maggiori (oltre l’80% delle famiglie ha una casa di proprietà); uno stato sociale, un ampio settore del volontariato ed una struttura famigliare che assicura protezione e sostegno anche ai più deboli. Una struttura industriale forte sull’export che ha registrato negli ultimi 3 anni un surplus di oltre 37 miliardi di euro, contro un deficit di quella inglese di quasi 40 miliardi. Un sistema bancario meno esposto degli altri ai rischiosi mercati della finanza strutturata. Perfino sul fronte del rapporto deficit/Pil, che ha confronto delle previsioni per il 2010 del Regno Unito di – 13,8% e della Spagna del -9,8%, quello italiano dovrebbe “tenere” (si stima per il 2010 un deficit, al netto degli aggiustamenti ciclici, pari al -2,7%, l’unico in Europa a stare dentro i parametri). È così anche le previsioni sulla disoccupazione per l’anno in corso – per quanto molto pesanti, ovvero -9,8% (era pari al 6,1% nel 2007) – sono “meno peggio” di quelle del Regno Unito -9,9% (era il 5,3% nel 2007), degli USA – 10,2% (era il 4,6% nel 2007) e della Spagna il 20,5% (era l’8,3 nel 2007). Tutto ciò – per grazia del cielo – non deve consolare, ma sono dati che dimostrano una maggiore tenuta del nostro sistema rispetto ad altri.

La crisi in Italia verrà dall’economia reale e si trasmetterà alla finanza, piuttosto che viceversa. Recenti indagini interne all’andamento del credito bancario suggeriscono che la vera emergenza dei prossimi 12 mesi non sarà tanto il credit crunch (perché la domanda stessa di credito "buono", ovvero per investimento o sano funzionamento, sta flettendo negli ultimi sei mesi), ma il rischio di default di un numero di imprese ben al di là dei livelli fisiologici. In molti settori il giro d’affari si è ridotto del 20/30 per cento (e ben oltre nell’indotto di auto o elettrodomestici): le imprese già meno efficienti o più indebitate difficilmente potranno avere ossigeno per un anno.

Si può azzardare, sulla base di dati empirici raccolti all’interno del settore bancario e proiettati sommariamente, che esistano 10-15 miliardi di euro di crediti potenzialmente in default tra le sole PMI, da aggiungersi ai livelli fisiologici. Insomma, l’1 per cento circa degli impieghi.

Questa emergenza ha due profili preoccupanti:

1) i margini del commercial banking italiano non consentirebbero di assorbire queste perdite senza un’ulteriore, severa de-patrimonializzazione del settore bancario;

2) i livelli occupazionali nelle PMI fletterebbero in modo significativo.

La crisi economica italiana ha quindi delle caratteristiche sue proprie che richiedono interventi rapidi ed incisivi –“conformi al mercato”, e che pesino il meno possibile sul bilancio dello Stato.

Bene ha quindi fatto il nostro Ministro dell’Economia puntando su massicci interventi sul fonte della patrimonializzazione delle banche e sulle garanzie al credito alle PMI “mettendo sul piatto” quasi 30 miliardi di euro. Forse qualcosa si potrebbe pensare di fare anche attraverso interventi “temporanei” e non invasivi sul fronte del capitale. Una sorta di Tremonti Bond per le PMI permetterebbe loro di rafforzare il patrimonio quanto basta per accedere al credito nella fase di più forte contrazione della domanda. Interventi incisivi e non troppo costosi in un momento i cui il quadro di finanza pubblica non ci permette di reperire grandi risorse extra. Con un rapporto debito pubblico/Pil che il prossimo anno toccherà il 120% (crescendo in gran parte per un semplice fatto “matematico”, quando il denominatore del rapporto è negativo il rapporto stesso cresce, oltre che per un inevitabile diminuzione delle entrate fiscali dovuta alla recessione) è naturale che il Ministro dell’Economia tenga ben fermo il timone della spesa. Non potrebbe fare altrimenti. Sbagliano perciò tutti quelli che – sia a destra che a sinistra –   gli tirano la giacca da tutte le parti chiedendogli di aprire i cordoni della borsa. 

Un ultimo punto su cui il Presidente di Confindustria ha concentrato gran parte del suo discorso di ieri all’Assemblea Generale: i debiti commerciali della PA. Il problema è reale. Vanno, tuttavia, segnalati alcuni punti.

Innanzitutto si tratta di 25-30 miliardi di euro (e non di 60 come sostiene Confindustria). Di questi la quasi totalità riguarda le Regioni, ovvero i deficit della ASL. Circa il 70% riguarda tre regioni (Lazio, Campania e Sicilia). La parte che riguarda gli altri enti della PA (di cui non si hanno stime certe) sembrerebbe di entità molto inferiore. Va inoltre osservato che si sono manifestati in questi ultimi anni due fenomeni, uno “positivo” (che diminuirebbe l’ammontare dei debiti commerciali locali) ed uno negativo (che li aumenterebbe): (1) la stima non considera il meccanismo dei “residui passivi”  (somme stanziate ma non spese a fine anno e riallocate “in maniera fittizia” per quello successivo, che sono stimate per i soli comuni ad oltre 20 miliardi di euro); (2) la stima non considera i debiti trasferiti alle partecipate tramite debiti di firma (fideiussioni) che non compaiono nel bilancio degli enti e i debiti interni alla pubblica amministrazione (somme dovute dai comuni alle partecipate e “ritardati” senza che ciò appaia nei bilanci annuali), di entrambi questi fenomeni non se ne conosce   l’entità. Su questi due fronti sarebbe necessario fare degli approfondimenti tecnici e successivamente intervenire per via normativa.

Sul montante dei debiti commerciali la PA paga tassi di mora pari ad oltre l’11%, che rappresenta quindi un extra costo in termini di servizio su questo debito pari ad oltre 2 miliardi di euro all’anno. 

È quindi necessario affrontare il problema. I vincoli di finanza pubblica – in seguito ad una loro “emersione” che causerebbe un aumento del debito di 2 punti di Pil – vanno tenuti in seria considerazione. Da una parte è vero che il mercato dei titoli della Repubblica già li sconta, quindi un graduale assorbimento dei debiti commerciali della PA non dovrebbe avere effetti negativi sugli spread. Dall’altra, va osservato che il problema è comune a molti altri paesi europei e quindi si potrebbe anche concepire un intervento concertato a livello comunitario.

Strumenti per “ripulire” i bilanci e rincominciare da capo con sistemi di controllo cassa/competenza ci sono. Una azione politica in questo senso nel prossimo futuro potrà quindi avere sia effetti positivi per i saldi di finanza pubblica (soprattutto nel caso della sanità) e sia costituire una importante manovra anti-ciclica per dare ossigeno alle PMI italiane che rappresentano la struttura portante della nostra economia.