In Italia le espulsioni non funzionano anche perché mancano i traduttori

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In Italia le espulsioni non funzionano anche perché mancano i traduttori

29 Gennaio 2009

Arrestati, condannati e poi messi subito in libertà. Chissà quante volte avremo sentito ripetere queste parole negli ultimi mesi, specialmente quando si tratta di reati particolarmente gravi, come la rapina o aberranti al punto da scuotere l’animo umano, come lo stupro. Se poi parliamo di immigranti, magari anche irregolari e clandestini, non è molto difficile capire che l’applicazione della giustizia ci sta sfuggendo di mano. Non serve a placare gli animi la solita risposta “i giudici applicano il diritto, non è colpa loro se la legge è troppo blanda”. E se invece si venisse a sapere che, in fondo in fondo, anche le istituzioni hanno molte delle responsabilità di cui cercano di lavarsi le mani?

 Il Tar del Lazio, che si occupa dei ricorsi di tutto il territorio nazionale è praticamente saturo, tanto che che rischia di portare al collasso l’intero sistema di giustizia amministrativa. Si tratta di migliaia di ricorsi contro le espulsioni imposte agli stranieri extracomunitari dall’amministrazione italiana. Una mole che deve essere smaltita da 67 magistrati – 54 dei quali a tempo pieno – e da 103 funzionari amministrativi. Un rapporto pari a 1,5 impiegati per magistrato, “il più basso di sempre” come commenta il presidente del Tar, Pasquale de Lise. 

Esistono due tipi di decreti di espulsione amministrativa, quella disposta dal ministero dell’Interno “per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato” e quella della prefettura, “per ingresso clandestino, irregolarità del soggiorno e sospetta irregolarità sociale”. Il giudice fa il suo lavoro, ascolta l’imputato, dà la parola al pm e poi all’avvocato della difesa (principalmente quelli a patrocinio gratuito), e les jeux sont faits: il magistrato firma il provvedimento di allontanamento dall’Italia. E’ qui che il gioco si complica.

Secondo la legge, entro 48 ore, il questore è tenuto a informare l’interessato dell’espulsione. Ma in che lingua? Il sistema italiano prevede che il provvedimento debba essere tradotto nella lingua madre dello straniero o in una delle altre lingue “ufficiali” (inglese, francese e spagnolo) solo se è impossibile trovare un traduttore della lingua in questione. Molto spesso accade, però, che per “velocizzare” le operazioni espulsive la decisione venga tradotta direttamente in una lingua ufficiale, impedendo di fatto l’esercizio dei diritti di difesa dell’imputato e violando un diritto essenziale del singolo. Ed ecco che gli avvocati ricorrono in massa contro i provvedimenti. La conseguenza è che l’espulsione è nulla. In parole povere, il decreto di allontanamento non vale, è solamente un pezzo di carta straccia.

Tale concetto è stato confermato proprio l’anno scorso dalla Corte di Cassazione in un processo contro un’immigrata di nazionalità bulgara, spiegando che “non si può presumere la conoscenza della lingua italiana da parte di uno straniero”. La Suprema Corte, infatti, ha sempre criticato questo comportamento ricordando che spetta alle questure disporre di liste di interpreti. Dal canto loro i commissariati si difendono e spiegano che non ci sono traduttori disposti a fare questi lavori. E hanno ragione da vendere. Basta considerare le condizioni in cui si trovano per capire che a nessun interprete e traduttore conviene lavorare con le istituzioni: turni di lavoro stressanti, senza differenza nei notturni o festivi (basta considerare l’impegno richiesto durante le intercettazioni), per un’attività pagata meno di quanto riceve una collaboratrice domestica e, per colmo, retribuita a distanza di un anno di tempo. Ma c’è dell’altro. In casi come quello dei processi contro terroristi, minacce, stress e bassa remunerazione non servono a convincere i traduttori a non rinunciare all’incarico. Era già successo all’indomani degli arresti delle cellule islamiste in Italia quando furono 13 i traduttori ad abbandonare uno dopo l’altro un solo processo, rischiando di impantanare le indagini e di portare il processo ai limiti della decorrenza dei termini. 

Forse possiamo allora capire l’impotenza di poliziotti e finanzieri che scuotono la testa dopo aver arrestato un clandestino e poi se lo ritrovano per strada solo perché il provvedimento non era nella sua lingua madre. Loro hanno fatto il loro lavoro, il giudice ha fatto giustizia. Ma non ci sono abbastanza mezzi per creare una struttura stabile di traduttori esperti a disposizione delle autorità. Peccato però che, per ogni singolo processo che porta a quel documento diventato poi carta straccia, lo Stato debba investire ben duemila euro per le spese di giudici, avvocati d’ufficio, interpreti, cancellieri, forze dell’ordine. Tutti soldi sprecati.