In Italia non abbiamo Stürmer, ma (ormai) solo i letterati di Repubblica
18 Giugno 2012
di Daniela Coli
Piero Ostellino (Il silenzio imbarazzato dell’intellighenzia, Il Corriere,16 giugno) osserva come le grandi crisi che il mondo moderno ha attraversato hanno sempre prodotto grandi novità politiche ed economiche ed oggi è sconfortante il silenzio della cultura. Forse, da qualche parte del pianeta, c’è qualcuno che sta scrivendo un libro che diventerà un classico per i posteri del turbocapitalismo, certo non verrà dalla gioielleria che Repubblica espone a Bologna in questi giorni, quella che ci rappresenta nel mondo. La situazione è davvero sconfortante. Nel secondo ‘900 noi non abbiamo un Charles Wright Mills, né un Pareto (fuggito in Svizzera), un Weber, né uno Schumpeter.
Nella nostra storia abbiamo avuto dei letterati, come sottolinea anche Carlo Galli nel recente Disagio della democrazia, e ancora oggi abbiamo soprattutto letterati, non comparabili davvero a Machiavelli, Leopardi, Manzoni e neppure a d’Annunzio, Prezzolini e Gadda. Umberto Eco è il nostro letterato più conosciuto all’estero per Il nome della rosa. Da noi è considerato una specie di Sartre, ma, con tutte le critiche che si possono fare a Sartre, non ha lo spessore filosofico, né letterario di Sartre. In Inghilterra Eco sarebbe un Ken Follett, l’autore dei Pilastri della terra, un bestseller come Il nome della rosa, non il genio nazionale. Rispetto al secondo ‘900, Saviano non è Sciascia, rientra nel filone di romanzieri di mafia, uno spaghetti western di successo assicurato, senza l’intelligenza di Sergio Leone, che reinterpretò il genere filmico americano e lanciò Clint Eastwood negli States.
I letterati di Rep sono come i registi: minimalisti, generazionali, divulgatori dell’Italia tribale, incapaci di un film come La dolce vita di Fellini o Il sorpasso di Dino Risi. Il primo del ’60, il secondo del ’62. La dolce vita è un film drammatico sull’americanizzazione del paese e la scomparsa dell’Italia povera ma bella, il passaggio dall’Italia di Olmi a quella di Mediterraneo di Salvatores. Il sorpasso di Risi è più importante di tanti libri sull’identità italiana: Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant sono due idealtipi dell’italiano uscito dalla guerra, con la strada come metafora della vita. Gassman è l’italiano velleitario, frustrato, ma ottimista e vitale. Trintignant è l’italiano gregario, che si affida a uno sconosciuto e si lascia trasportare dovunque. Il sorpasso è un capolavoro, per De Niro la sorpresa del film è che Risi fa morire Trintignant, il “buono”, e non Gassman, il “cattivo”. Il personaggio di Gassman è velleitario, ma ha energia e voglia di vivere e questa è la chiave della scelta di Risi. Se prendiamo Lo spaccone con Paul Newman ( Paolo Nuovouomo), del ’61, abbiamo un tipo simile al Gassman del Sorpasso, ambizioso, po’ imbroglione, con la voglia di fare soldi, giocando a biliardo.
Il cinema italiano parlava ancora una lingua internazionale, non soltanto reggeva il confronto con gli americani, ma produceva maestri come Dino Risi, Fellini, Antonioni, Visconti, senza contare i Rossellini, i De Sica. Scomparsi loro, c’è il balbettio minimalista, generazionale, allineato al mainstream. Risi era del 1916, Fellini del ’20, Antonioni del ’12, Visconti del 1906, tutti con proprie idee politiche, ma interessati a capire la realtà, a immaginarla, interpretarla, senza fare film politicamente corretti. Prova d’orchestra di Fellini è in un certo modo un film politico, una metafora del caos attuale: un film emblematico del futuro nel 1979, oggi del nostro presente.
Non abbiamo un Amarcord, ma un Ecce bombo, un remake romanesco del Fonzie di Happy days e non abbiamo un Michael Stürmer, un grande storico di fama internazionale, un protagonista della Historikerstreit, capace di passare dalla geopolitica all’economia, consigliere di Kohl, biografo di Putin, una firma importante del giornalismo tedesco, che dice a Habermas “Non hai più niente da dire”. Da noi, tutti sanno chi è Habermas, pochi chi è Michael Stürmer, il cui avversario è sempre stato Habermas. Stürmer ha impostato la discussione sulla storia tedesca su un paradigma simile a quello delle Annales e a quello usato da Braudel per l’identità francese, dove la posizione geografica caratterizza la storia di una nazione. La Germania, per Stürmer, è troppo piccola per avere l’egemonia dell’Europa e troppo grande per non turbare l’Europa.
Anche in Germania si è discusso molto sul passato, Stürmer è stato accusato da Habermas di usare la sua teoria della storia per relativizzare i crimini nazisti, ma la polemica si è mantenuta alta intellettualmente. Certo, come da noi, quando Günter Grass, autore del Tamburo di latta, ha pubblicato la propria autobiografia, rivelando di essere stato un giovane volontario delle Waffen-SS, vi sono stati commenti e rivelazioni maliziose, ma, in definitiva, nelle guerre e nelle guerre civili, come osserva Hobbes, muoiono sempre i più coraggiosi, e chi rimane, dopo una sconfitta si adegua, per legge “darwiniana” di sopravvivenza. Per certi versi la storia è a tale told by an idiot, la Germania dell’ovest era troppo occupata a sopravvivere per una guerra civile fredda, che avrebbe minato qualsiasi tentativo di riunificazione e la Germania si è riunita senza spargere una goccia di sangue. Di intellettuali della statura di Stürmer noi non ne abbiamo, diversamente da inglesi, americani, francesi, e ne avremmo un grande bisogno, anche perché è uno dei pochi intellettuali a sapere davvero pensare la politica. “History has a great imagination”, come dice Stürmer, e lo stiamo vedendo.