In Italia non c’è mai stata una Guerra civile

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In Italia non c’è mai stata una Guerra civile

In Italia non c’è mai stata una Guerra civile

18 Maggio 2013

Ma quale guerra civile! Ma quale pacificazione! è il titolo di un articolo del 18 maggio di Alessandro Campi sul sito dell’Istituto di Politica, dove il politologo perugino sostiene che “guerra civile” e “pacificazione” sono due luoghi comuni della nostra politica, strumentalizzati dal berlusconismo. Per Campi l’unica guerra civile reale è  quella da cui è nata la nostra democrazia, anche se difficilmente sarebbe nata dalla “lotta fratricida” tra fascisti e antifascisti, se gli Alleati non fossero mai sbarcati in Sicilia. Poi questa categoria, per Campi, è stata erroneamente applicata a tutta la storia italiana e alla politica post-45.

La mia tesi, simile a quella di Galli della Loggia de La morte della patria, è che nel periodo ‘43-‘45 non vi fu in Italia una guerra civile, né furono repubblichini e partigiani a decidere il futuro dell’Italia, ma due eserciti stranieri, quello tedesco e quello angloamericano, che combatterono, loro sì, uno scontro mortale sul suolo italiano. In questa guerra, da cui le nostre città bombardate uscirono a pezzi, sia la Rsi, sia i partigiani ebbero un ruolo secondario. I tedeschi, come ha dimostrato più volte Roberto Vivarelli, giovanissimo volontario, come tanti altri ragazzi italiani, della Rsi,  non si fidavano dei fascisti, non li facevano combattere: la Rsi era uno stato fantoccio, privo di autonomia.  Mussolini – come scrisse De Felice – avrebbe preferito essere mandato in qualche  Sant’Elena, come Napoleone,  non essere liberato dai tedeschi.

I partigiani, come ha mostrato De Felice in Rosso e Nero, furono finanziati ed equipaggiati dagli Alleati per fare azioni di disturbo contro i tedeschi, atti di sabotaggio, spionaggio, preparazione di attentati e colpi di mano. Gli Alleati, soprattutto gli inglesi, non volevano certo organizzare un esercito partigiano di cui non avevano e non potevano avere il controllo politico-militare, ma piccoli gruppi di guerriglia. E questo fu il movimento partigiano. Non sostenne una sola battaglia degna di tale nome con i soldati della Rsi, né con i tedeschi e gli Alleati non ne riconobbero mai il ruolo politico-militare, come lo riconobbero soltanto a parole al del Regno del Sud, tanto che l’Italia, a differenza della Francia, non sedette al tavolo dei vincitori alla conferenza di Parigi del ‘47, ma fu trattata da nazione sconfitta  e come tale punita con perdite di territori acquisiti nella prima guerra mondiale e delle colonie.

La difficoltà a definire ciò che accadde nel periodo 43-45 (guerra civile o resistenza) da parte italiana implica la difficoltà a definire cosa accadde.  E’ noto che i primi a parlare di guerra civile furono i fascisti della Rsi (Giorgio Pisanò con la Storia della guerra civile in Italia. 1943-1945), mentre gli storici accademici, non solo quelli di sinistra, rifiutarono sempre con indignazione la nozione di guerra civile fino al saggio di Claudio Pavone (1991), Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Pavone tentò di prendere due piccioni con una fava: in realtà gli scienziati politici e i filosofi politici seri sanno che la guerra e la guerra civile non  hanno niente a che fare con la morale. Le guerre si vincono se si uccidono più nemici e qualsiasi mezzo è valido pur di raggiungere lo scopo: questa è la moralità della guerra, la cui razionalità è quella strumentale. “It is a shameful thing to win a war”, scrisse  Malaparte e con questa frase Rachel Kushner inizia l’introduzione all’edizione americana di The Skin.

Il saggio di Pavone era politicamente intelligente:  era caduta l’Urss, era fallito il progetto del Pci, il partito comunista era stato legittimato da quanto accaduto nel ‘43-‘45, l’ideologia dell’antifascismo che aveva tenuto insieme la prima repubblica diventava meno praticabile e Pavone optò per accogliere il concetto di guerra civile, unito però a quello di morale e di Resistenza e in virtù di questa sovrapposizione la Resistenza diventava una guerra civile, morale e patriottica. Il saggio di Pavone poteva aprire un grande dibattito nella sinistra con risultati politici importanti: purtroppo la lungimiranza di Pavone non fu raccolta.

In realtà, in Italia dal ‘43 al ‘45 non si combatté una guerra civile (le guerre civili reali sono cose serie), i partigiani fecero quello che è accaduto infinite volte nella storia durante una guerra, quando un paese è invaso e lo Stato che ha dichiarato la guerra a chi lo ha invaso sta perdendo la guerra. Da sempre il sovrano o il capo politico sconfitto viene abbandonato dai suoi, qualcuno dei suoi lo consegna al sovrano vincitore per accreditarsi e così accade ai lealisti che gli rimangono vicino. Insomma, la solita storia, a tale told by an idiot.

Per questo, dopo tanti anni, va sdrammatizzato quanto accadde, prendendo gli uomini e le donne per quello che sono, più feroci degli animali talvolta. A provocare una profonda frattura non fu la supposta guerra civile, ma  ciò che accadde dopo il 25 aprile: risentimenti e passioni di ogni tipo. La frattura fu causata soprattutto da quanto avvenne dopo il 25 aprile: le mattanze descritte da Pansa, le epurazioni, la caccia al fascista, uccisioni di preti, di piccoli proprietari, di ufficiali, maestre, etc: vendette di ogni tipo. La frattura venne istituzionalizzata dalla grande vittoria Dc del 48, risultato non tanto del timore di essere invasi dell’Urss, ma della paura dei comunisti nostrani, dei vari triangoli della morte, delle mattanze, etc., del terrore che i comunisti prendessero il potere e facessero una piazza pulita alla Pol Pot, come diremmo oggi. In politica sociale, la Democrazia cristiana non era rigidamente anticomunista e in politica estera non era rigidamente antisovietica. I due partiti Dc e Pci sbraitavano, ma dettero anche vita al consociativismo, com’è noto.

Per tutta la prima repubblica la religione dominante è l’antifascismo, la resistenza o guerra civile viene lottizzata, tutti i partiti dell’arco costituzionale hanno storici che rivendicano il ruolo  della loro parte nell’abbattimento del fascismo, come se gli Alleati non fossero mai sbarcati in Sicilia. E’ un mantra dire  che la resistenza ci ha liberati dal fascismo ed è un’eresia pericolosissima dire che Mussolini e il fascismo sono stati abbattuti dagli anglo-americani. La fine dell’Urss e la vittoria di Berlusconi nel 1994, alleato con la Lega Nord e con il Msi riporta in primo piano la guerra di civile. E’ il periodo del revisionismo, si scoprono aspetti nascosti del periodo 43-45, il Sangue dei vinti di Pansa  rivela ai più la grande mattanza ed è il libro cult del periodo.

In questo periodo la categoria della guerra civile si estende alla storia italiana, diventa una metafora della politica italiana, ma in Italia non è stata combattuta alcuna guerra civile. Questo è il grande paradosso. Le guerre civile reali, quella inglese, americana, spagnola, per citare le più famose, sono combattute ferocemente da popoli divisi in due con eserciti, battaglie dove non si fanno prigionieri, città rase al suolo o incendiate (si pensi ad Atlanta) etc. Senza interventi stranieri, anche se possono esservi aiuti stranieri, come in quella spagnola, dove però gli stranieri non sono decisivi, il vincitore è Franco.

Dopo le guerre civili vere, si cambia lo Stato completamente, ma rapidamente si passa alla pacificazione. Nelle guerre civili reali, storiche, i vincitori hanno tutto l’interesse a ricompattare il popolo, la nazione, e in genere segue un periodo di intenso patriottismo. In alcuni casi, come in Gran Bretagna, la seconda guerra civile è indolore, priva di sangue, tory e whig si uniscono nella celebrazione della gloriosa rivoluzione che li ha liberati dalla Chiesa Roma e segue un periodo di espansione,  la fondazione dell’impero. Storici saggi come lo whig Hume scrivono storie che pacificano gli ultimi irrequieti e descrivono la guerra civile come il male peggiore che possa accadere a un popolo, una malattia non inglese, tipica dei paesi del Sud Europa, come quei poveri, disgraziati greci, che inventarono parole come amnistia e ostracismo, dove la guerra civile (Hume pensa ad Atene della Guerra del Peloponneso di Tucidide tradotta in inglese da Hobbes) distrugge una grande civiltà.

Perché da noi, dove non c’è stata una reale guerra civile, la guerra civile è diventata la metafora preferita per descrivere la vita politica italiana da quasi settant’anni? Perché il paese è sempre pronto a dividersi, a detestarsi, e perché il berlusconismo è diventato sinonimo di fascismo, the devil, come dice qualche corrispondente inglese e americano che legge troppo Repubblica?

Non c’è una sola risposta, certo la stasis, come direbbe Tucidide,  è di casa tra noi, e il ruolo geopolitico dell’Italia non aiuta, ma forse è proprio perché nel 1945 non c’è stato nessun vincitore: nessuno ha vinto e i “vincitori” non hanno avuto l’onestà di ammetterlo. Come giustamente afferma Campi, le pacificazioni “non si risolvono con il disarmo contestuale dei combattenti e un gesto concertato di pubblica concordia: la pacificazione presuppone sempre la vittoria di una delle due parti”. Oggi però non è necessaria una vittoria che annienti l’avversario per arrivare non tanto alla concordia magica ( difficile immaginare una democrazia priva conflitti), ma a una società decente, gettandosi alle spalle l’illusione di annientare per sempre l’avversario, con qualsiasi mezzo.

Proprio perché non c’è stato alcun vincitore reale tra gli italiani nel 1945, i “vincitori” potrebbero ammettere, come i “vinti”, di non essere speciali, “antropologicamente diversi” o più morali: di essere  come tutti gli altri.  Sarebbe bastato un leader di sinistra dopo il 1989 o il 1994 che avesse avuto il coraggio  di trovare le parole per dirlo e l’Italia avrebbe avuto un’altra storia meno bombastica in questi ultimi due decenni. C’è ancora tempo per trovare le parole per dirlo e auguriamo all’Italia un leader di sinistra coraggioso che abbia la forza di gettarsi alle spalle il passato e dire quello che disse Croce nel ‘47: “abbiamo perso tutti. Stop”.

Per il resto, occorre sdrammatizzare la politica, piantarla d’immaginare grandi lavacri, pensare alle cose pratiche, a cui pensa la maggioranza degli italiani. Certo, gli intellettuali italiani che si occupano di politica non hanno il dono anglosassone di sdrammatizzare, ma potrebbe aiutarli la lettera di un condannato a morte durante la resistenza. E’ la lettera di un repubblichino, condannato alla fucilazione. Dice pressappoco così: “Cara mamma, mi hanno condannato a morte. Non credere a quello che ti diranno, ho fatto quello che hanno fatto tutti gli altri. Ho scelto il cavallo perdente”.

Mi è sempre sembrata la cosa più lucida di quel periodo, sarà perché appartengo alla specie dei facoceri, descritta  sul Foglio da Giovanni Orsina. E so che la politica, come ogni altra cosa, fa parte della corsa della vita e che i filosofi morali, come Hobbes chiamava i filosofi politici, passano la vita a combattersi con la penna e con la spada per decidere il giusto e l’ingiusto, senza arrivare a niente di concreto, ma alimentando incendi di ogni tipo, con l’idea dell’umanità perfetta e dello Stato (etico) perfetto.