In Kosovo ci sono anche i Serbi che sono andati a votare
16 Novembre 2009
Chissà che avrebbe pensato Ibrahim Rugova, il “Ghandi dei Balcani”, guardando alle prime elezioni amministrative interamente gestite dai kosovari, a un anno di distanza dalla dichiarazione di Indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Il voto di ieri è stato un altro passo in avanti nel processo di nation-building e state-building che la giovane repubblica balcanica ha intrapreso dopo la guerra, un processo di edificazione di una identità nazionale e di istituzioni stabili e speriamo democratiche.
“Questa domenica dovrebbe mostrare al mondo che il Kosovo è un Paese che produce pace e stabilità nella regione,” ha detto il presidente Fatmir Sejdiu, uno dei successori di Rugova alla guida della Lega Democratica del Kosovo (LDK). Il partito della intellettualità serba si è indebolito dopo la scomparsa del “professore” nel 2006, ma controlla ancora Pristina, dove il sindaco Isa Mustafa ha fatto campagna elettorale con i democratici di Hashim Thaci, l’ex comandante dell’UCK, l’esercito di liberazione nazionale kosovaro. Era un negoziatore intransigente, Rugova, un intellettuale prestato alla politica, dallo stile a volte rigido e antidemocratico, come dura e senza appello fu la sua protesta non violenta, il “sistema parallelo” messo in piedi dagli albanesi per anticipare la loro secessione dalla Serbia. L’indipendenza del Kosovo dopo la guerra degli anni Novanta è stato anche il frutto, contradditorio, neo-identitario, conflittuale, di quegli ideali.
Isa Mustafa sa che intanto lo scenario è cambiato. Questo economista vicino ai circoli statunitensi, alla missione Usaid, all’influente diaspora kosovara negli Usa, ha un posto nel board dell’istituto RIINVEST, collegato a un network di centri di ricerca internazionali come la prestigiosa Chatham House. Nei giorni scorsi Mustafa ha fatto tappezzare Pristina con i suoi cartelloni, dando voce alle forze liberal-conservatrici del Paese, che si battono per creare un framework legale che favorisca il commercio e l’impatto sociale della transizione economica. Ha vinto con il 57 per cento dei voti conquistandosi il secondo mandato nella capitale. Il Kosovo resta un Paese poverissimo ma per la sua posizione Pristina può attrarre investitori stranieri interessati ad espandersi in Albania, Macedonia, Montenegro, e nella stessa Serbia. Il Kosovo ha buoni legami anche con la Turchia e la Bulgaria e, se mai ci fosse un mini-trattato di Schengen balcanico, Pristina incrementerebbe gli scambi, il trasporto di merci e la comunicazione, gli investimenti nel settore e sulle rotte dell’energia.
Certo, l’assestamento del Paese dopo un lungo periodo di guerra e terrorismo, tutela della NATO e dell’Unione Europea, è ancora incompleto. Ci sono scosse telluriche che fanno tremare la nuova struttura statuale. Prima delle elezioni, i principali partiti in campo – i democratici di Thaci e i rivali dell’opposizione di Haradinaj – si sono sfidati a colpi di pietre, attentati falliti e bombe inesplose. Ma l’imponente schieramento di polizia (5mila agenti kosovari), insieme alla KFOR, la Missione Nato ancora presente nel Paese (13mila uomini dell’Alleanza Atlantica), hanno mantenuto la calma.
Pieter Feith, il capo dell’International Civilian Office della UE, si è prodigato sul versante della regolarità del voto, ed ha ammonito i cento Osservatori internazionali presenti sul territorio a vigilare sul trasporto delle schede e sui contenitori che raccoglieranno i voti. L’UE non vuole ritrovarsi con un nuovo caso di frode elettorale, dopo le polemiche degli ultimi anni sul “Pianeta Unmikstan” (le accuse rivolte all’Onu e a Bruxelles di aver reso creato un protettorato), mentre i politici locali si davano a una gestione corrotta e semimalavitosa della cosa pubblica. Il sito “Osservatorio sui Balcani” si chiede come siano finanziati i partiti che hanno fatto campagna elettorale, in uno stato ad alta infiltrazione mafiosa e dove numerosi candidati alle elezioni sono sotto processo.
A Pristina è sbarcata una delegazione di sette membri del Parlamento europeo guidati dall’europarlamentare tedesco Doris Pack, che fino all’ultimo ha invitato i kosovari, serbi e albanesi, di andare a votare. C’è infatti il macigno della minoranza serba che, fino all’ultimo, si è divisa sul voto. Se era prevedibile l’astensionismo a Mitrovica e nel Kosovo del Nord, la zona del Paese dov’è più forte l’influenza di Belgrado (a metà della giornata di ieri l’affluenza era quasi nulla, tra lo 0,5 e il 2,4 per cento della comunità serba), è andata diversamente nelle altre enclave del Paese. Secondo il sito Balkan Insight, sempre ieri mattina, gli Osservatori a Strpce, una municipalità a maggioranza serba nel Kosovo meridionale, hanno registrato la presenza di serbi alle urne, sia nella città che nei villaggi della zona (alla fine ha votato il 31 per cento della popolazione). A Gracanica, una delle enclave più grandi, alle 15.30 aveva votato circa il 14 per cento della popolazione. Soprattutto i giovani hanno capito che i serbi del Kosovo devono decidere del proprio destino in modo autonomo da Belgrado.
Voci della classe dirigente serba hanno chiesto ai loro fratelli del Kosovo di non eclissarsi dal sistema elettorale, dalla gestione della vita pubblica e dalla politica kosovara. Il premier serbo Tadic ha ripetuto che Belgrado non riconoscerà mai l’indipendenza di Pristina (com’era di prammatica), ma ha anche parlato di “una soluzione di compromesso”. La Serbia di Tadic vuole dimostrare a Bruxelles di essere “uno dei pilastri della stabilità dell’Europa Sudorientale”. Sempre ieri, il governo di Skopje ha aperto la propria ambasciata a Pristina, dopo il riconoscimento macedone del Kosovo del 10 ottobre scorso e gli accordi sulle questioni di frontiera ancora irrisolte.
Due anni fa, l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, John Bolton, aveva detto che un Kosovo indipendente avrebbe creato “un inevitabile confronto con la Russia”, trasformando un problema relativamente piccolo in un grande problema. Proprio nell’anno in cui si festeggia la caduta del Muro di Berlino e il collasso della “Cortina di Ferro”, e dopo il terribile decennio della “guerra civile jugoslava” degli anni Novanta, l’esperimento del Kosovo mostra invece che si può uscire dai conflitti di tipo nazionalistico, religioso, culturale e identitario, ricostruendo la democrazia, anche grazie all’intervento di organismi internazionale e potenze straniere.
Dall’emergenza identitaria degli anni Novanta si è passati, attraverso una lunga fase di transizione, a un nuovo stato-nazione attratto dall’orbita dell’Unione Europea (oltre alla “relazione speciale” con gli Usa). Se il Kosovo si stabilizzerà definitivamente avrà ancora un senso parlare di identità europea e di allargamento dell’Unione a est.