In Libano riprendono gli scontri. Prove di dialogo tra Siria e Israele

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In Libano riprendono gli scontri. Prove di dialogo tra Siria e Israele

25 Giugno 2008

Siniora arranca: per ora niente nuovo governo di unità nazionale al Gran Serraglio. Eppure gli accordi di Doha erano stati chiari e l’Occidente – Italia, USA e Francia in testa – non aveva perso tempo ad applaudire la nascita della nuova creatura governativa. Forse, come si dice, avevano fatto i conti senza l’oste. L’opposizione guidata da Hezbollah non gradisce la ricandidatura di Siniora, fatto sgomberare solo poco più di un mese fa dal Gran Serraglio a colpi di moti di piazza, e probabilmente non si aspettava che il generale Suleiman lo ritirasse fuori dal suo cilindro. Nasrallah avrebbe preferito Hariri come candidato alla guida del Governo. Vedere l’azionista forte della coalizione del 14 marzo esposto in bella mostra al Gran Serraglio avrebbe infatti offerto ad Hezbollah l’opportunità di cuocerlo a fuoco per poi papparselo bollito alle elezioni delle primavera prossima. Logorare Siniora servirà a poco se Hariri mantiene le mani libere. 

E così tra veti incrociati e cinici calcoli, in Libano continua a regnare l’impasse politica, regolarmente punteggiata da scontri: prima nella Bekaa, poi, negli ultimi giorni, a Tripoli dove miliziani di Al Mustaqbal e gruppi alawiti legati ad Hezbollah si sono affrontati a colpi di RPG e cannone. Risultato: dieci morti e diverse decine di feriti. Solo ieri è stata raggiunta una tregua su cui adesso vigila l’esercito libanese. Lo stop è stato benedetto da 15 leader religiosi convocati in tutta fretta da Suleiman nel palazzo presidenziale della Bedbaa. La formula è quella consueta che esprime la condanna dell’uso delle armi per risolvere le dispute politiche. Di fatto serve solo per tornare in cantina ad oliare il kalashnikov. 

L’impasse libanese fa il paio con ciò che sta accadendo in Israele. Olmert ha il fiato corto. Le accuse di corruzione ne hanno portato ai minimi la popolarità e il suo Governo è a pezzi. Dopo la decisione dei laburisti di sostenere la mozione per lo scioglimento anticipato della Knesset, promossa dal Likud, nelle ultime ore la situazione è cambiata. Il primo ministro ha convinto Barak a una marcia indietro in cambio della garanzia di primarie all’interno di Kadima entro il 25 settembre. Un piccolo compromesso che consente ad Olmert di respirare ancora un po’ ed offre a Barak la garanzia dell’uscita di scena del primo ministro, visto che la partita per la leadership dentro Kadima sembra ormai ridotta al ministro degli Esteri Tzipi Livni ed al ministro dei Trasporti Shaul Mofaz. Certo è che qualunque cosa succederà, mai come oggi lo Stato ebraico si era ritrovato con una guida politica così debole.

Se questo è lo scenario diventa difficile capire se il recente lavorio diplomatico sul Golan e la riapertura della questione delle fattorie di Shebaa siano cose serie oppure no. Delle volte si ha l’impressione che su questo tavolo siano in molti a bluffare: Olmert per allungare la minestra da servire ai suoi avversari interni, e alla magistratura, Assad per indole familiare incline alla dissimulazione – ritenuta molte volte la sola via possibile per ottenere concessioni dal nemico – e il Governo libanese che sulla questione non sa che pesci prendere e non vede di buon occhio un accordo diretto tra Damasco e Gerusalemme. 

Nonostante bluff o presunti tali, i colloqui indiretti di Istanbul tra Israele e Siria sembrano procedere. C’è chi dice che un accordo sia già pronto e che nel prossimo futuro la mediazione turca possa lasciare il posto a colloqui diretti tra Israele e Siria in concomitanza con l’ingresso alla Casa Bianca del nuovo inquilino. In discussione sarebbe la prospettiva di una restituzione del Golan alla Siria. La formula ricalcherebbe quella già adottata con gli accordi di Camp David con l’Egitto: pace in cambio di terra. Da un punto di vista tecnico, Israele riconoscerebbe di fatto la sovranità della Siria sulle alture – e Damasco ritroverebbe così la sponda orientale del Giordano e del lago di Tiberiade – che verrebbero trasformate in una sorta di parco internazionale al fine di preservarne le fondamentali risorse idriche e garantirne un corretto sfruttamento da parte di tutti. Oltre alla sovranità su Golan, alla Siria verrebbe riconosciuto un accesso regolamentato alle acque, mentre a Israele il diritto di sfruttarle per le proprie necessità e una presenza regolamentata nel territorio delle alture. La zona verrebbe smilitarizzata e messa sotto il controllo di una missione di osservatori ONU o di una forza multilaterale. Questa sorta di limbo durerebbe per un certo numero di anni per dar modo a Israele di trovare una sistemazione ai 16.000 coloni che abitano da quelle parti. Solo allora ci sarebbe il ritorno alla piena sovranità siriana sul Golan. Di fatto si tratterebbe di una soluzione basata su alcuni piani già elaborati in passato come quello dell’ex ambasciatore italiano a Beirut Cassini o la bozza “Suleiman-Leil” preparata durante i colloqui segreti tra Siria e Israele del 2006. 

A spingere in questa direzione ci sono più fattori. Per esempio il fatto che Israele stia facendo enormi passi in avanti nelle tecniche di desalinizzazione, cosa che lo renderebbe meno “assettato” di quanto non lo sia stato fino ad oggi – e ricordiamo che Israele soddisfa il proprio fabbisogno idrico per il 70% attingendo a fonti collocate in territori sotto occupazione. Poi le ragioni politiche. Di Olmert abbiamo già detto. Più si tratta con i nemici, più si allungano i tempi di un’uscita di scena: un primo ministro israeliano non può essere formalmente incriminato nel bel mezzo di un negoziato. Buone, anzi ottime, anche le ragioni siriane. Grazie a un accordo con Israele, i furbetti del quartierino Assad vedrebbero definitivamente svanire la prospettiva di un giudizio internazionale per l’assassinio dell’ex premier libanese Hariri. Allo stesso tempo, Washington potrebbe portare in dote doni assai graditi come il depennamento dalla lista dei componenti dell’Asse del Male, con la sospensione del Syria Accountability Act e delle sanzioni. Poco importa che Damasco abbia già rispedito al mittente (israeliano) la richiesta di porre come precondizione ai negoziati la revisione dei rapporti con Iran, Hamas ed Hezbollah. Il ridimensionamento dell’asse con Teheran, e quindi con i suoi due legionari per procura, avverrebbe nei fatti qualora i colloqui dovessero effettivamente portare a qualche risultato. 

Il discorso del Golan si lega a quello dell’eventuale restituzione delle fattorie di Shebaa. La questione è tornata improvvisamente di attualità un paio di settimane fa. Israele considera l’area – 25 chilometri quadrati di terreno alle pendici occidentali del Monte Hermon dove si incontrano i confini siriano, israeliano e libanese – territorio siriano; parte del sistema occupato del Golan. Questa opinione è condivisa dalla comunità internazionale e dall’ONU, ma non dal Governo libanese e da Hezbollah che considerano le Fattorie parte del proprio territorio. A parole, la sovranità di Beirut su Shebaa sarebbe riconosciuta anche da Damasco, ma di fatto un’intesa tra i due paesi per una corretta e precisa demarcazione del confine non c’è mai stata. Quello di cui si starebbe parlando oggi è una rinuncia da parte di Israele alle fattorie di Shebaa e la loro assegnazione ad un’amministrazione ONU in attesa che Damasco e Beirut trovino un’intesa sulla delimitazione dei confini. Il problema è che la Siria di demarcare i confini con il Libano non ne ha molta voglia, perché ciò equivarrebbe a riconoscerne una volta per tutta la piena sovranità, mentre il Governo libanese vorrebbe immediatamente la zona senza vederla prima affidare all’ONU. E non dimentichiamo Hezbollah, che se a parole vuole le Fattorie, nei fatti da una loro accessione al Libano perderebbe definitivamente ogni legittimazione per continuare nella “resistenza” armata. Ergo, meglio che ciò non avvenga, potrebbe pensare qualche cattivo. Israele dal canto suo sarebbe stato convinto a rinunciare a quest’area strategicamente fondamentale – da Shebaa si controlla tutto il Libano del Sud e qui scorrono le acque dei fiumi Wazzani e Hasbani che congiungendosi formano poi il Giordano – per le pressioni americane, ultimamente sempre più insistenti. Washington considera d’altra parte un’eventuale rinuncia da parte di Israele alle Fattorie di Shebaa un segnale di apertura importante e un passo che potrebbe favorire, e non poco, i colloqui con la Siria, giudicati adesso alla Casa Bianca prioritari per tentare di scalfire l’asse Teheran-Damasco. 

I prossimi mesi saranno allora decisivi, ma come sempre accade in Medio Oriente, tutto è appeso a un filo. In particolare a tre incognite: il ruolo dell’Iran che, di fatto, precipiterebbe nell’isolamento in caso di un’eventuale pace tra Siria e Israele, l’effettiva volontà di Damasco di tagliare i ponti con Teheran e le resistenze degli ambienti militari israeliani alla cessione di due tasselli d’importanza strategica fondamentale come Shebaa e il Golan. Macigni. Basteranno a rimuoverli le motivazioni politiche interne e l’attivismo inclinato a kennediani sorrisi del probabile nuovo inquilino della Casa Bianca?