“In Libia Europa e Italia possono promuovere le nostre libertà”
22 Febbraio 2011
La Libia brucia. Centinaia i morti. L’integrità territoriale del paese nord-africano è messa in questione. l paese mediterraneo è nelle mani delle varie fazioni dell’esercito, controllate dai vari clan della famiglia Gheddafi. E l’Italia che ruolo gioca? Roma si ritrova in mano un trattato d’amicizia, quello del 2008, firmato con un dittatore che di fatto, in questo momento, non controlla più il suo paese. Siamo andati a guardare il record delle votazioni (molto bipartisan a dire il vero) alla ratifica del trattato d’amicizia tra Roma e Tripoli nel 2009. Ci siamo accorti che tra i vari astenuti c’è il nome di Furio Colombo del Pd e dei deputati Radicali eletti nel Pd. Ma c’è anche il nome di Fiamma Nirenstein, deputata del Pdl. Con lei parliamo del perché si astenne al momento della ratifica del Trattato ma soprattutto delle diversità che, da paese a paese, contraddistinguono il grande cambiamento mediorientale e nord-africano. E anche del ruolo che Italia ed Europa possono giocare nella crisi libica.
On. Nirenstein nella sua dichiarazione di astensione alla Camere lei affermò che il trattato Italia – Libia era “un gesto di ottimismo politico”. Con il senno di poi se la sente di dire che fosse un “ottimismo” mal riposto?
Come eletta ho sempre compreso le motivazioni di quell’accordo. Alla base delle ragioni politiche di quel trattato c’era quello che definisco oggi come un “ottimismo della volontà”, che in sé ho sempre ammirato. E capisco oggi, come al tempo della ratifica, il perché di quel trattato. Come ha più volte affermato il ministro Maroni, c’era la necessità di fermare una situazione insostenibile nella gestione degli sbarchi di clandestini sulle coste italiane, provenienti in maggior parte dalle coste libiche. Sbarchi che come noto e alla luce dei grandi stravolgimenti politici che stanno avendo luogo in Nord-Africa e in Medio Oriente sono drammaticamente ripresi. Ora la ragioni che mi spinsero ad astenermi sono le stesse che ritrovo purtroppo anche oggi: Gheddafi, tra tutti i dittatori dell’area, è uno dei più sanguinari, dei più inaffidabili e, se vogliamo, anche dei più bizzarri.
Nello specifico quali furono le ragioni della sua astensione alla ratifica del trattato?
Due principalmente: la prima era quella di ritenere difficile stringere un accordo con un personaggio che aveva quelle caratteristiche. Il solito problema dell’affidabilità. Nonostante la ragione dell’accordo, c’era un problema immanente, se vogliamo, storico legato al personaggio. La seconda ragione riguardava, dal mio punto di vista, l’integrità. E quando parlo di integrità, mi riferisco al fatto che un accordo, a parer mio, può sempre funzionare quando c’è un processo democratico in marcia. All’epoca non si vedeva niente di tutto questo. Lo dico con tutta la modestia di cui sono capace: il problema dell’integrità dovrebbe guidarci anche oggi nella formulazione delle nostre posture rispetto a quello che accade in tutti quei paesi che sono oggi toccati dalle rivolte in Nord-Africa e nel Medio Oriente.
La situazione in Libia di queste ore ci costringe a parlare di cronache di morte. In attesa di capire cosa ne sarà del regime del colonnello Gheddafi, qual é la differenza principale tra le proteste libiche e gli altri focolai di rivolta della regione? Si può parlare di una “eccezione libica”?
Insomma c’è un bella differenza tra un Mubarak in Egitto che non spara sulla folla e che cede il proprio potere dimettendosi e un Gheddafi in Libia che fa sparare sulla propria gente. Mi pare evidente. Il fatto stesso che solo ora arrivino delle immagini di ciò che accade in Libia, ci conferma che il regime del colonnello ha fatto di tutto per impedire che il movimento di popolo avesse il men che minimo spazio. Al Jazeera ha mandato dei filmati che, con tutta la dovuta prudenza quanto alla loro affidabilità, ci mostrano aerei delle forze libiche bombardare la città di Bengasi. Un’”eccezione”, se c’è, è che la gente sta morendo in piazza a centinaia e centinaia. E’ ora che la comunità internazionale se ne renda conto e che agisca di conseguenza.
I ministri degli esteri europei si sono prodigati ieri nella condanna della sproporzionalità delle reazioni governative libiche nei confronti dei manifestanti che hanno fatto centinaia morti. Non molto non le pare?
Innanzitutto dobbiamo capire quello che non vogliamo come europei. Primo punto: non vogliamo le stragi di civili e dobbiamo spingere su questo punto. Secondo punto: non vogliamo che la trasformazione di queste società assuma derive estremiste islamiste. Quando il ministro degli esteri Frattini dice, e cito, “che sarebbe un grande rischio la nascita di un emirato in Libia o in parte di essa”, coglie la natura del problema. Quello che l’Italia in Europa può fare, è attenersi ai valori. Stare su di essi e porci le domande giuste sulla nostra idea di libertà. E soprattutto mettere alla prova le nostre libertà. Prendiamo l’Egitto: se dopo il dittatore emerge un partito islamista come quello dei Fratelli Musulmani, gli egiziani dovrebbero chiedere loro, come ha proposto Tarek Heggy, la condivisione di alcuni principi: libertà religiosa, libertà delle donne, il rispetto della pace con Israele. Queste sono condizioni che valgono per l’Egitto, ma che valgono anche per la Libia in queste ore.
All’Italia quale ruolo nel quadro specifico della Libia?
Intanto dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per fare in modo che le autorità libiche cessino le violenze sulla propria popolazione. Abbiamo un trattato che non è solo una responsabilità, ma può anche essere un strumento di leverage da esercitare sui libici. A noi interessa la salvaguardia della vita e della democrazia. Dobbiamo spingere sulla scrittura di una Costituzione, perché vale la pena di ricordarlo a tutti noi, i libici hanno solo il libretto verde della rivoluzione gheddafiana. Decisamente poco.
In generale le rivolte possono volgere al migliore dei risultati come al peggiore. Quali i rischi che lei intravede in tutto quello che accade nella regione nord-africana e mediorientale?
Dietro l’angolo può esserci il problema islamista, che può manifestarsi ovunque, tanto in Libia che in Egitto che altrove. C’è il rischio fondato che tutte queste rivolte possano dar luogo a regimi rivoluzionari che, sul modello khomeinista, finiscano con l’esercizio di una violenza religiosa e arbitraria contro le donne, gli omosessuali o quel che resta delle minoranze religiose in questi paesi. Sono aspetti del problema che stanno (e devono stare) sulle spalle di tutti noi, e non possiamo liquidarli facilmente con un non precisato e vago entusiasmo per i movimenti rivoluzionari di popolo in generale. Non basta.
Non le pare che si sia fatto poco in Occidente, e in particolare in Europa, per aiutare paesi come l’Egitto, tanto per fare l’esempio più eclatante, a entrare in una composta fase di transizione democratica? Ci siamo ridotti a fare solo l’elogio delle piazze, non le pare?
Il problema c’è. Possiamo certamente elogiare la folla in marcia, i giovani, i blogger e come google e facebook abbiano aiutato le persone a comunicare. Tutto bene. Poi, quando l’ondata delle folle in marcia si placa, accade quello che è già accaduto in Egitto, ovvero il ritorno dello sceicco della Fratellanza Musulmana, Yusuf al Qaradawi. Da piazza Tahrir, ha arringato la folla al grido del ritorno ai valori dell’islam tradizionale nella società egiziana. E ancora: due navi iraniane passano dal canale di Suez, cosa che il dittatore Mubarak non avrebbe mai permesso. Queste genere di destabilizzazioni, figlie anche delle sommosse di questi giorni nei paesi arabi, dicono che non siamo dentro al quadro del “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, dove il movimento delle masse è buono in sé e per sé. Non è vero. E’ un assunto che non vale sempre, tutt’altro. E soprattutto esso è figlio di una cultura profondamente sbagliata che fa dire a un politico come Massimo D’Alema che la presenza di Hezbollah nel sistema dei partiti libanese è un positivo esperimento politico. Siamo veramente alla fette di prosciutto sugli occhi.