In Libia gli alleati iniziano la campagna acquisti tra i fedeli di Gheddafi
04 Aprile 2011
Carl von Clausewitz ci aveva visto giusto quando coniò l’espressione “the fog of war”, la nebbia della guerra. Ogni conflitto armato rende la realtà meno chiara, annebbia la visione. Troppe le informazioni; troppe le variabili che incidono sulle decisioni operative di chi comanda le parti del conflitto. In Libia non siamo proprio in guerra. Almeno ancora non la chiamiamo così. L’espressione dello stratega prussiano allora potrebbe essere piegata alla esigenze umanitarie e giornalistiche con “the fog of diplomacy”, la nebbia della diplomazia.
Perché di chiaro ormai nel conflitto libico c’è veramente poco, soprattutto indecifrabili appaiono le ‘partite’ che gli Stati nazionale europei (e non solo) giocano nel paese nord-africano. Quello che si può affermare con relativa certezza è che interessi diversi hanno spinto un fronte disunito a mettere il naso in una guerra civile, quella libica. Intanto le forze militari Usa hanno smesso di partecipare alle operazioni quotidiane d’imposizione della no-fly zone sui cieli libici, da quando a guidarle è la Nato.
Tre paesi europei tra i più coinvolti nel conflitto – Francia, Gran Bretagna e Italia – per interesse nazionale o per necessaria proiezione strategica, stanno conducendo erratiche politiche nazionali per portare a casa l’unico obiettivo che rimane minimo comun denominatore europeo nel guazzabuglio libico: la dipartita del colonnello Gheddafi. Gli strumenti per raggiungere l’obiettivo rimangono aleatori e poco chiari. La no-fly zone non basta di per sé a sconfiggere le forze ancora fedeli al colonnello Gheddafi il quale, nonostante non possa più contare su una superiorità nei cieli, resta al comando di un vero esercito, dotato di un sistema di command-and-control e di truppe addestrate. Dei ribelli non si può dire lo stesso.
La fornitura di armi ai ribelli di Bengasi resta, in questo scenario, pomo della discordia nel gruppo ristretto di nazioni “atlantiche” che hanno guidato l’iniziativa diplomatica in Libia. Il dilemma rimane intatto ancora oggi. Immettere più armi nel conflitto armato tra le due fazioni libiche avvantaggerebbe di per sé il fronte del Consiglio provvisorio di Bengasi contro le forze di Gheddafi? A questa domanda Parigi pare aver risposto affermativamente, visto che sembra pacifico che armi francesi siano già in mano ai ribelli. Londra e Washington rimangono scettiche sull’armare i ribelli per due ragioni principali. In primis le intelligence statunitense, europea e israeliana – la stessa che negli scorsi mesi non ha visto arrivare la primavera araba – hanno fatto trapelare che elementi vicini ad al-Qaeda e a Hezbollah avrebbero ormai da giorni infiltrato le forze dei ribelli libici. Una buona ragione insomma per andarci cauti.
In secondo luogo il problema operativo per la coalizione alleata non sembra essere la fornitura di armi ai ribelli in sé, bensì l’addestramento di quest’ultimi. Addestrare una recluta richiede molto tempo: non settimane, non mesi ma anni. Tempi biblici che spingono l’amministrazione statunitense a un lento disimpegno. La più stringente delle ragioni dell’amministrazione Obama è l’inizio della campagna elettorale per le elezioni presidenziali 2012, ufficialmente lanciata oggi. L’intervento di Libia rischia di essere un boomerang politico per l’inquilino della Casa Bianca. Un intervento, quello libico, che peraltro non "piace" particolarmente all’opinione pubblica d’oltre atlantico secondo i recenti sondaggi.
Insomma se per alcuni paesi dare armi ai ribelli appare la migliore soluzione per sconfiggere Gheddafi, permettendo così alle forze del Consiglio nazionale di transizione libico di ovviare manu militari ai limiti operativi dell’intervento onusiano di no-fly zone che non possono annientare le forze di terra del colonnello,resta il problema: i ribelli non hanno sinora provato alcuna competenza militare e le loro difficoltà non sono legate solo alla mancanza di armamenti. Senza una coerente organizzazione militare, in assenza di efficienti comunicazioni sul terreno di guerra, in assenza di una forte leadership civile e soprattutto incapaci a pianificare e sostenere logisticamente delle offensive militari, i ribelli sembrano fare di tutto per foraggiare lo scetticismo di molte cancellerie europee. Insomma i ribelli potrebbero finire con lo spararsi sui piedi e con l’infestare la regione con troppe armi negli anni a venire.
La ricerca di defezioni nel campo di Gheddafi diventa allora un importante strumento in mano alla coalizione atlantica per ottenere la partenza del colonnello e scongiurare il peggio: un intervento di terra in Libia, uno scenario del conflitto libico che nessuno sembra volere. Dato che i ribelli non riusciranno autonomamente a impadronirsi di Tripoli e visto che le forze del colonnello resistono alle forze ribelli, fare terra bruciata attorno al raìs e al suo clan è stata assurta a ufficiale tattica della coalizione. Dall’inizio del conflitto alcuni tra i più leali collaboratori del raìs lo hanno abbandonato. E non si tratta solo dei ribelli di Bengasi, ma di uomini che hanno voltato le spalle al colonnello senza raggiungere la ribellione, chi per non essere associato domani al regime, chi per non vedersi indagato il giorno che l’Aia dovesse condurre indagini finanziarie nei confronti degli appartenenti al regime.
Gli ultimi a raggiungere il campo alleato sono stati l’ambasciatore libico presso l’Onu, Ali Abdel Salam al-Treki che ha defezionato il 31 Marzo scorso, seguito dal defezione più pesante nella ‘campagna acquisti’ occidentale, quella del ministro degli esteri Moussa Koussa, da quattro giorni in “mano” ai britannici. La defezione di Koussa avrebbe innescato una serie di defezioni nel campo del colonnello: il ministro del petrolio, Shukri Ghanim; il segretario del Congresso generale del popolo Mohamed Abu al-Qasim al-Zawi; il vice-ministro degli affari esteri con il portafoglio agli affari europei, Al-Ati al-Ubaydi; e poi il capo dell’organizzazione per la sicurezza esterna, Abu Zayid Durdah. Un ruolo quest’ultimo che anche Moussa Koussa ha ricoperto prima di diventare ministro degli esteri nel 2009.
Defezioni queste non confermate dagli interessati. Sembra comunque che l’effetto domino non ci sia ancora stato. In questa fase i vertici politici sono comprabili e fragili. Se la campagna acquisti nel campo di Gheddafi dovesse avere successo, lo si vedrà qualora dovesse attecchire in seno alle forze armate. Per il momento gli ufficiali di Tripoli rimangono fedeli al colonnello. Quello che è certo è che Moussa Koussa potrà certamente fornire informazioni utili a Londra: le fratture interne al clan Gheddafi, l’individuazione dei beni esteri del regime di Gheddafi e soprattutto fornire i nomi di quelle ambasciate libiche ove si trovino agenti che potrebbero costituire una minaccia terrorismo qualora il raìs volesse muoversi verso una strategia da "cane pazzo".
La posizione italiana sulla Libia evolve di giorno in giorno. Ieri il ministro degli esteri Franco Frattini ha ricevuto il ministro degli esteri del Consiglio nazionale di transizione di Bengasi, Ali al-Isawi, in un incontro a porte chiuse. In conferenza stampa il titolare della Farnesina ha dichiarato che l’Italia considera Bengasi l’unico interlocutore in Libia e che il governo italiano non esclude di prendere in considerazione la possibilità di armare i ribelli. Altra novità che emersa dall’incontro di ieri, è la prossima istituzione di una rappresentanza italiana a Bengasi. Frattini ha anche aggiunto che l’Italia sta lavorando a che la Libia non finisca separata in due parti. Nel frattempo il ministro ha confermato la notizia che l’ad di Eni, Paolo Scaroni, si sarebbe recato a Bengasi un paio di giorni fa per riavviare la cooperazione energetica tra l’Italia e la Libia.
Appare chiaro che Roma stia cercando di trovare una via terza rispetto al fronte anglo-francese da una lato, e quello tedesco-russo dall’altro. Se gli attriti maggiori con Londra – e soprattutto Parigi – sono passati per una diversa concezione del ruolo da giocare nel Mediterraneo, l’obiettivo del governo italiano sembra essere quello di stare al tavolo della spartizione domani. Roma non ha avuto il tempo di resistere alle pressioni anglo-franco-statunitensi e di certo non voleva finire con la lettera scarlatta appiccicata addosso “di amico del dittatore che spara sui civili e che fa le fosse comuni”. Notizie poi smentite o non verificabili. Negli ultimi giorni, comunque, la diplomazia italiano è andata costruendo una propria politica sul dossier Libia. Rimane l’obiettivo principale: mandare a casa Gheddafi e scongiurare il proseguimento di una guerra civile sul suolo libico. Un conflitto che, a oggi, rischia pero’ di andare in stallo e divenire guerra di posizione, aumentando le possibilità di sopravvivenza politica di Gheddafi e del suo sistema di potere almeno in metà della Libia.
Roma non appare lontana comunque dal condividere la politica della ‘campagna acquisti’ sul fronte libico, magari tentando di avvicinare membri stessi della famiglia di Gheddafi. Ma la posta in gioco resta comunque per Roma la leadership europea nel Mediterraneo. Anche le divisioni interne al campo occidentale, sembrano vere e proprie avvisaglie di fratture politiche ove interessi nazionali entrano apertamente in conflitto con mire egemoniche e vetuste velleità anglo-francesi di tornare a controllare i destini del Mediterraneo dopo la “pedata” statunitense-sovietica-egiziana presa nel 1956 a Suez. Una partita in cui Roma gioca molto di più che l’apparenza alla polverosa epopea del "siamo ancora grandi". D’altronde come diceva un pioniere delle relazioni internazionali in Italia riferendosi al Mediterraneo: “La Francia ci passa, l’Italia ci vive”.