In Libia si rischia la guerra civile senza il disarmo delle milizie
06 Gennaio 2012
Di notte Tripoli diventa un campo di battaglia. Ogni quartiere è presidiato da bande armate. La capitale libica è una sorta di mosaico di poteri, dove ogni brigata, ogni gruppo, ogni formazione, tiene il controllo d’una zona, e si risente assai se uomini di altre formazioni vengono a ficcarci il naso.
La brigata Zitan, per esempio, ha preso il controllo dell’aeroporto, quelli di Misurata stanno piantati a guardia della banca centrale e del porto, le brigate Tripoli tengono il centro della città, mentre i berberi delle montagne, quelli della brigata Yafran, sono al comando negli altri quartieri del centro.
Martedì la tensione è esplosa, e non è certo la prima volta, quando una brigata di ex combattenti ribelli di Misurata ha cercato di prendere in custodia di alcuni sospetti “criminali” per riportarli nella città costiera. Ne è seguito uno scontro a fuoco che ha ucciso quattro persone e che ha fatto sprofondare la capitale in un nuovo senso di insicurezza.
La Libia rischia di scivolare in una vera e propria guerra civile se non riporta sotto controllo le milizie rivali che hanno riempito il vuoto lasciato dalla caduta di Muammar Gheddafi. Passati oltre due mesi dalla cattura e dalla morte del Colonnello, i nuovi governanti stanno ancora cercando di affermare la propria autorità, mentre i leader delle milizie rifiutano di cedere il controllo dei loro combattenti e di deporre le armi.
"Affrontiamo con severità queste violazioni e mettiamo i libici di fronte a uno scontro militare che non accettiamo, oppure ci dividiamo, e allora sarà guerra civile", ha detto Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio nazionale di transizione.
Le milizie, messe in piedi da decine di diverse città e da diversi gruppi politici, hanno guidato la guerra contro il regime di Gheddafi, col sostegno aereo della Nato, e ora sono riluttanti ad abbandonare il campo. Il Cnt ha iniziato a muoversi per creare una forza di polizia e un esercito che funzionino pienamente e sostituiscano le milizie ma i progressi sono ancora troppo lenti.
Gli Stati Uniti hanno offerto consulenza e supporto al processo di creazione di una forza centrale di sicurezza ma ci sarebbe bisogno di qualcosa di più. Washington non ha intenzione di intervenire nel paese nordafricano che non rappresenta un interesse vitale per gli americani. Francia e Gran Bretagna, azionisti di maggioranza della coalizione Nato che ha portato al regime change, restano a guardare. Discorso analogo per l’Italia.
Al momento appare improbabile una qualsiasi missione di pace sotto l’egida dell’Onu. Ma se gli occidentali si chiamano fuori, c’è già chi opera in Libia a tutto campo. E’ il caso del Qatar che sta emergendo come un importante attore sullo scacchiere internazionale. La Libia è il teatro più importante per l’emirato.
Ha contribuito in maniera determinante a convincere la Lega Araba ad appoggiare l’imposizione di una no-fly zone. Ä– stato il primo paese arabo a riconoscere il Cnt. Ha partecipato attivamente alla missione militare con centinaia di uomini. Ha anche messo a disposizione dei ribelli oltre 400 milioni di dollari.
Al Jazeera, l’influente canale satellitare con sede a Doha, ha avuto un ruolo di primo piano nel sostegno alla causa dei ribelli libici e nella creazione di un clima internazionale favorevole all’intervento militare. L’attivismo in Libia è solo uno degli aspetti della spregiudicata politica estera dell’emirato per realizzare il proprio ambizioso piano.
Affermarsi come attore globale e diventare un nuovo punto di riferimento in Medio Oriente. Per adesso si comincia dalla Libia. Dove opera Abdel Hakim Belhadj, capo militare di Tripoli, protetto dei servizi qatarioti. Belhadj è un generale che viene dal circolo di Derna, uno dei più importanti centri di ispirazione del fondamentalismo musulmano, ed è stato alla guida di quel Gruppo libico di lotta islamica un duro avversario di Gheddafi.
Quando Beladji è stato nominato ”guardiano di Tripoli” le tribù hanno minacciato di usare le armi per cacciare gli islamisti. Ma se salta Tripoli, esplode tutto il Paese. Nessuno sembra in grado di fermare l’escalation.
E’ a questo punto che torna in gioco il Qatar (con tutta la sua influenza economica), protettore di Belhadj. Quando due giornalisti, ad ottobre hanno cercato di contattarlo per un intervista, i suoi uomini hanno risposto al telefono: “provate tra qualche giorno. E’ a Doha per una riunione importante”.