In nome dell’intercettazione sovrana, il Cav. sarebbe già bello che condannato

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In nome dell’intercettazione sovrana, il Cav. sarebbe già bello che condannato

31 Gennaio 2011

Sabato sera, intervistato da Fabio Fazio  nel suo "salottino", Enrico Mentana faceva notare quanto fosse compatto il PdL in difesa di Sivio Berlusconi. Nonostante – aggiungiamo noi – che la violenta campagna mediatica a cui è sottoposto il premier lasci qualche ragionevole dubbio su particolari abitudini e stili di vita sicuramente discutibili. Il caso si spiega in tanti modi non meritevoli della solita banalità del "partito sottomesso ad un padre-padrone".

Nei confronti di Berlusconi agiscono certamente sentimenti di gratitudine. E merito suo se, nel 1994, la "gioiosa macchina da guerra" messa in campo da Achille Occhetto non ha mietuto quel grano che i pm avevano seminato per gli eredi del Pci. E se, ancora adesso, le sinistre stanno all’opposizione. Inoltre, nessuna persona onesta militerebbe o anche solo voterebbe per il PdL  se non fosse convinta (e le prove sono tante da "oscurare il sole") che nei confronti del Cavaliere è in atto, fin dal momento in cui iniziò a fare politica, una meticolosa, spietata e palese persecuzione giudiziaria, con motivazioni prettamente politiche. Nulla è più insopportabile di una giustizia deviata, di una consorteria di magistrati che si avvale dei propri delicati poteri per condurre una lotta politica, giustificandone il conseguimento dell’obiettivo – l’abbattimento del tiranno – anche mediante la violazione delle regole dello Stato di diritto di cui invece dovrebbe essere geloso custode e irriducibile garante.

Ma nella vicenda di "Ruby e le compagne", a saperlo cercare in mezzo alle scollature, ai fondischiena e ai ricchi premi e cotillons distribuiti a piene mani, c’è in ballo molto di più di quanto, pur importante, abbiamo ricordato fino ad ora. A qualunque studente di giurisprudenza – persino a quei beoti che vanno in giro negli atenei a predicare stupidaggini contro Marchionne e Gelmini e a lodare i metalmeccanici –  intento a frequentare il corso per l’esame di procedura penale, il  professore spiegherebbe che la confessione è soltanto un mezzo di prova come gli altri. Che un magistrato non può accontentarsi di indurre un indagato a confessare le sue colpe, ma deve cercare anche altri riscontri oggettivi. Volendo, il professore potrebbe anche spingersi fino a ricordare che, nei secoli passati, la pratica della tortura non dipendeva dalla malvagità dei tribunali, ma da una precisa cultura giuridica, in base alla quale senza la confessione non era possibile pronunciare una condanna. Fu Cesare Beccaria a fare evolvere questa impostazione e ad aprire nuovi orizzonti al processo penale. L’imputato può essere condannato in base a riscontri differenti dalla confessione, al punto che essa non è più non solo indispensabile, ma persino necessaria per la sentenza.

Durante "Tangentopoli" la carcerazione preventiva fu usata come tortura per indurre le persone a confessare ciò che serviva al pm. Non a caso. La "confessione" (sempre estorta) fu al centro delle purghe staliniane in Urss e nei Paesi satelliti, proprio perché la regia dell’evento richiedeva la distruzione della personalità dell’avversario politico. Oggi però la magistratura è andata oltre l’abuso della confessione. Con le intercettazioni telefoniche a strascico e la loro pubblicazione sugli organi di stampa si è arrivati alla condanna oggettiva e preventiva. Non c’è più bisogno nemmeno del processo. E neppure della confessione. Le frasi virgolettate, scaturite dalle intercettazioni, sono diventate la prova inconfutabile, sufficienti a pronunciare la condanna. Sembra di essere tornati ai tempi dell’Inquisizione: tra peccato e reato non c’è più distinzione.

Ecco dunque che si profila un’altra ragione per tenere duro, in nome di una cultura moderna e democratica del diritto. Negli anni ’70, uscì sugli schermi un film intitolato "In nome del popolo italiano", dove un pm integerrimo, interpretato  da Ugo Tognazzi, si convince della colpevolezza di un palazzinaro romano (interpretato da Vittorio Gassman: quasi un ritratto del Cav  ante litteram) nella morte di una giovane escort. Quando viene in possesso delle prove che discolpano l’imputato, le distrugge perché individua in lui tutti i mali dell’Italia. E’ questa la cultura di cui sono imbevuti tanti magistrati oggi.