In Pakistan aumentano le violenze contro i cristiani
25 Settembre 2007
“Siete liberi, liberi di andare ai vostri Templi, liberi di recarvi nelle vostre moschee o in qualsiasi altro luogo di culto in questo Stato del Pakistan. Partiamo da questo principio fondamentale, che noi tutti siamo cittadini di un solo Stato”. Queste le parole di Mohammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, nel suo discorso davanti alla prima assemblea costituente nazionale, nell’agosto 1947. Non si aspettava certo, Jinnah, che la visione della nascente nazione che stava illustrando sarebbe stata, sessanta anni più tardi, quanto di più lontano dalla fotografia del suo Paese. Nel Pakistan di oggi le minoranze sono discriminate, spesso anche perseguitate e, dove impera indisturbato l’estremismo, l’Islam viene imposto con la forza.
Convertitevi o morirete. Da oltre tre mesi i cristiani sono vittime di costanti minacce da parte dei gruppi fondamentalisti, in particolare nella regione nordoccidentale del Paese. L’ultimo episodio di prevaricazione è stato denunciato ad inizio settembre dal Consiglio delle Minoranze del Pakistan: nel Punjab meridionale, agli abitanti di un villaggio cristiano era stato chiesto di convertirsi all’islam, pena la morte. Un episodio tristemente simile aveva interessato, a maggio, il villaggio di Charsadda, dove gli estremisti avevano dato ai cristiani dieci giorni di tempo per abbracciare l’islam e chiudere le chiese, se non volevano essere giustiziati. È solo di pochi giorni fa, invece, l’allarme lanciato dalla Commissione Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale locale sulle minacce alle scuole cattoliche della regione nordoccidentale. Un istituto gestito dai missionari di Mill Hill, frequentato da studenti islamici e cristiani, è stato colpito e danneggiato da una bomba nel mezzo della notte. Un’altra scuola, affidata alle suore carmelitane, è sorvegliata giorno e notte dalla polizia a causa dell’annuncio di un attacco suicida da parte di un gruppo radicale islamico, che accusa le religiose di proselitismo nei confronti delle novecento alunne musulmane. La Chiesa locale annuncia che non si lascerà intimidire e ha deciso di non chiudere le strutture scolastiche. Ma i cristiani, in Pakistan, sono in triste compagnia. Nella provincia della frontiera di nord-ovest, anche gli indù e i sikh sopportano il peso di una costante intolleranza. Sono addirittura molte leggi locali a stabilire che essi sono cittadini “inferiori”.
Cheena Bibi ha dodici anni, vive nel Punjab e ha subito uno stupro di gruppo. Ma la polizia non agirà contro gli accusati, perché Cheena è cristiana. Nei quasi ottocentomila chilometri quadrati del Pakistan vivono oltre 160 milioni di abitanti, divisi per legge – articolo 260 della Costituzione – tra islamici e non. Le minoranze religiose sono state spesso escluse dalle liste dei votanti, è stata loro negata una rappresentazione proporzionale tra le cariche pubbliche (il 97,51 per cento dei dipendenti civili federali è musulmano). Spesso le loro proprietà sono state sequestrate con la forza e sono stati sistematicamente privati dei diritti economici, sociali e culturali. In Pakistan, dove l’Islam è la religione di Stato e il Corano “la legge suprema”, un articolo della Costituzione permette diventare presidente soltanto a chi è mussulmano. Ma le norme che maggiormente vengono strumentalizzate per colpire le minoranze sono le leggi di blasfemia, che nei primi sei mesi del 2007 hanno colpito almeno venticinque persone, di cui sedici cristiane. Coloro che scontano pene per blasfemia continuano a vivere nella paura anche molto tempo dopo il loro ritorno in libertà. Il governo, però, pare sordo ad ogni tipo di richiesta di aiuto proveniente dalle rappresentanze delle minoranze. In seguito a tutte le denunce ricevute negli ultimi mesi, ad agosto il Comitato dell’ONU sulla Convenzione internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (CERD) ha tentato di analizzare la difficile situazione del Pakistan. Senza potersi, però, avvalere del rapporto del governo locale. Il governo pakistano, infatti, non consegna le sue relazioni periodiche dal gennaio del 1998 e l’ultima presentata, risalente al giugno del ’96, non conteneva le informazioni adeguate. Il comitato ha interpretato l’atteggiamento come la “scelta di non cooperare”e ha chiesto con forza al governo di intervenire urgentemente per garantire a tutti la parità dei diritti.