“In pensione a un’età minima di 63 anni e a una massima di 70 anni”

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“In pensione a un’età minima di 63 anni e a una massima di 70 anni”

21 Novembre 2011

Riformare le pensioni di anzianità introducendo un minimo d’età flessibile e mantenendo l’uscita di sicurezza dei 40 anni di contributi solo agli operai. Un esempio: età minima 63 e massima 70 anni, con disincentivi per chi esce prima. La proposta arriva da Giuliano Cazzola deputato del Pdl e vice presidente della commissione lavoro alla camera, che vede le pensioni di anzianità come il “problema non risolto dal governo Berlusconi per l’opposizione dell’alleato leghista”.

Il nuovo governo ha chiamato a ministro del lavoro Elsa Fornero. E’ giunta davvero l’ora del “contributivo per tutti”?

Conosco e stimo Elsa Fornero da almeno vent’anni. Il neo ministro del welfare è una persona competente e ha delle idee molto chiare in tema di pensioni. Da anni lavora su due proposte di cui mi sono occupato anch’io presentando alcuni progetti di legge totalmente ignorati dal precedente governo. Si tratta dell’applicazione del sistema contributivo a tutti i lavoratori con il criterio del pro rata e dell’introduzione di un pensionamento unificato, per le diverse tipologie (vecchiaia e anzianità), per uomini e donne, che consenta di scegliere il momento della quiescenza (una volta maturata l’anzianità contributiva necessaria) all’interno di un range, compreso tra 63 e 70 anni di età e coordinato sia con i coefficienti di trasformazione (in chiave di incentivazione economica al proseguimento dell’attività lavorativa e di disincentivazione dell’esodo anticipato), sia con l’aggancio automatico all’attesa di vita, come già previsto dalla legislazione vigente.

Ritiene che un “contributivo per tutti” possa significare maggiori sacrifici solo per chi oggi ha la fortuna di trovarsi nel sistema “retributivo”?

Sono preoccupazioni largamente infondate. Si tratterebbe di applicarlo con il criterio del “pro rata”. A partire dall’anno 2012, e limitatamente agli anni seguenti, il calcolo del trattamento pensionistico verrebbe effettuato mediante il metodo contributivo anche per quei lavoratori a cui, sulla base della riforma Dini del 1995, si è continuato ad applicare il sistema retributivo. Così, al momento della pensione, gli anni di lavoro svolti fino a tutto il 2011 sarebbero sottoposti al calcolo retributivo; a quello contributivo, invece, gli anni successivi, fino alla maturazione del diritto. La prestazione sarebbe formata dalla somma dei due importi.

In questo modo, dunque, scomparirebbe per sempre il sistema retributivo?

Certo. Resterebbe solo il sistema misto per i lavoratori più anziani a fianco di quello contributivo per chi ha cominciato a lavorare nel 1996.

Per quanto riguarda invece la possibilità di scegliere il momento di andare in pensione?

L’altra misura, quella del pensionamento flessibile, può essere inclusa solo nel contributivo, dove consentirebbe di riordinare e razionalizzare la questione dell’età pensionabile, superando la dicotomia tra anzianità e vecchiaia, elevando, comunque, l’età effettiva di pensionamento ma, nello stesso tempo, consentendo di rispondere, con la flessibilità in uscita, a particolari scelte e a specifiche esigenze delle persone. Tale impostazione restituirebbe al regime contributivo quella flessibilità che aveva all’origine nella riforma Dini del 1995, poi perduta nel tempo. Occorrerebbe quindi coordinare le nuove norme con quelle vigenti nella fase di transizione. In particolare per un problema che non sarebbe risolto.

A quale problema si riferisce?

Mi riferisco al pensionamento di anzianità con 40 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica. E’ un aspetto critico del sistema, ma nello stesso tempo una questione non risolta. E la Bce è stata chiara per quanto riguarda l’anzianità.

Come mai queste misure non hanno trovato spazio nelle riforme degli ultimi due anni del governo Berlusconi?

Il governo Berlusconi non è stato in grado di intervenire a causa dell’opposizione dell’alleato leghista.

Mettiamo che arrivi una nuova riforma che imponga un età minima per andare in pensione di anzianità. Lei se l’immagina un operaio dopo 40/50 anni di lavoro?

Nel 1997 il governo Prodi decise di accelerare l’andata a regime delle nuove regole delle pensioni di anzianità (consisteva, allora, nell’introduzione di un requisito anagrafico in ‘marcia’ da 52 a 57 anni). Furono previste dei casi di deroga a cui continuava ad applicarsi la precedente tabella di marcia; tra i ‘derogati’ c’erano le categorie operaie. Si potrebbe applicare il medesimo criterio anche adesso, mantenendo l’uscita di sicurezza dei 40 anni solo per gli operai, almeno per un certo arco di tempo.

In questo modo gli operai, e soltanto gli operai, conserverebbero l’attuale via d’uscita dei 40 anni di contributi a prescindere dall’età?

Certo; mentre per le restanti categorie varrebbero i requisiti ordinari dell’anzianità: le quote e l’età minima. Sarebbe il caso, poi, di staccarsi da quota 97 e dai 61/62 anni, arrivando nel tempo a quota 100 e raggiungendo, anche nel sistema misto, il livello minimo di 63 anni che il neo ministro intende introdurre nel contributivo. Sarebbe una sorta di staffetta tra i due sistemi.

Tratto da Italia Oggi