In piazza senza bisogno di una scusa per dire ‘basta’

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In piazza senza bisogno di una scusa per dire ‘basta’

11 Novembre 2010

Ho visto e ho partecipato a tante manifestazioni a sostegno o in solidarietà per Israele ma la “maratona oratoria” Per la verità, Per Israele che si è svolta lo scorso 7 ottobre a Roma aveva caratteristiche uniche e originali. Caratteristiche tali da far sperare in un risultato di lungo termine, il germe di qualcosa di permanente e attivo in grado di insediarsi positivamente nel dibat­tito pubblico attorno a Israele e alla sua identità.

Intanto mi ha sorpreso l’eccezionale successo di un appuntamento pubblico convocato “a freddo”. Non si è trattato infatti di portare gente in piazza in nome di Israele come vittima: non era una convo­cazione sulla scia di un attentato, di un attacco e neppure di una particolare minaccia. Persino l’effetto della vicenda della “Freedom Flotilla” era ormai evaporato con il tempo e inefficace in termini di mobilitazione. Questa prima novità non va sottovalutata: è sempre stato relativamente facile – almeno in Italia – suscitare un’ondata di simpatia verso Israele quando piovevano missili sui civili, o quando gli autobus o i caffé cittadini esplodevano facendo decine di vittime, o quando i suoi soldati venivano rapiti e tenuti prigionieri per anni.

La condizione di Israele come vittima abbiamo imparato a rispettar­la e a tributargli il nostro pegno di solidarietà. Ma c’è un elemento di ambiguità in questo, come se Israele ci piacesse solo quando è vittima, come se solo il suo stato di minorità o di pericolo la rendes­se degna del nostro riconoscimento. E’ un po’ l’estensione del fatto assodato per cui ci riesce molto più facile onorare gli ebrei morti, chinare il capo allo Yad Vashem o ad Auschwitz, piuttosto che rico­noscere la verità e i diritti degli ebrei vivi e dello Stato che li accoglie e li protegge. E nello stesso senso ci sembra più accettabile l’esisten­za di Israele se la consideriamo una sorta di compensazione per l’Olocausto, come se il diritto di uno Stato ad esistere fosse da pa­garsi con uno sterminio.

Invece il 7 ottobre a Roma, anche in mancanza di un’onda emotiva, la manifestazione ha avuto un successo oltre ogni possibile previsio­ne. Eravamo in piazza senza bisogno di una scusa o di una giustifica­zione, senza un alibi buonista o politicamente corretto, senza dover misurare le parole e senza trucchi di equidistanza o equivicinanza. E questo a dimostrare che l’elemento della solidarietà è infine passato in secondo piano rispetto a quello della verità. Perché è questo che Israele merita in primo luogo: la sua verità, il diritto a essere ricono­sciuto per ciò che è. La soli­darietà può es­sere anche un sentimento a buon mercato, si può dare con la destra e ripren­derlo con la sini­stra a seconda delle occasioni, e soprat­tutto regala buona coscienza a chi la offre ma per chi la riceve è di poco impiego. La verità è invece qualcosa di molto più impegnativo per chi la dichiara e di essenziale, esistenziale per chi la riceve. Questo dunque è stato in prima analisi l’appuntamento di Roma.

Il secondo elemento che mi appare come una pietra miliare nel rapporto con Israele è che i promotori della “maratona”, gli oratori, tutti gli intervenuti avevano chiaro come quella manifestazione fosse prima di tutto rivolta a noi stessi – occidentali, europei, italiani, e solo di riflesso verso Israele. Il senso della giornata era esattamente questo: chiedere, pretendere di farla finita con le menzogne su Isra­ele, prima di tutto per salvaguardare la nostra salute mentale e la nostra capacità di intendere e di volere.

Perché se continuiamo a sentirci dire che Israele è uno stato di apartheid, che non rispetta i diritti umani, che è razzista e persino nazista, noi rischiamo di non riconoscere più il vero apartheid, il vero razzismo, il vero nazismo che alligna attorno a noi, nei nostri stessi paesi. Se ci convinciamo che a violare i diritti umani è soprattutto Israele, noi non saremo più in grado di riconoscere le vere violazioni dei diritti umani e di inter­venire a difesa e sostegno di chi ne è vera vittima. Israele ha certo bisogno di amicizia e sostegno, ma sa anche cavarsela molto bene da sola. Siamo noi europei ad essere a rischio, a non sapere più chi siamo e quali sono le nostre radici. Le bugie su Israele sono prima di tutto un veleno contro di noi, una orrenda pozione di ottundimento e di cecità a cui potremmo divenire assuefatti.

Per questo la giornata del 7 ottobre a Roma potrebbe essere una svolta. Politici, ministri, intellettuali, artisti, scrittori, giornalisti di di­versi paesi europei, di diversi e spesso opposti orientamenti politici (cosa più unica che rara in questo periodo in Italia), si sono messi in fila, hanno spintonato, premuto, incalzato, per dire basta! Per dire basta con le bugie, basta con la delegittimazione, per dire che non siamo più disposti farci bombardare dal conformismo anti-israeliano, anti-ebraico, antisemita, senza reagire. Perché prima ancora che a chiunque altro lo dobbiamo a noi stessi e a quella parte di noi e della nostra storia che si chiama Israele.

(Tratto da Shalom)