In Russia Obama ha fatto il contrario di quello che chiedevano i neocon
06 Luglio 2009
Li davano per spacciati ma hanno sette vite. Un mese fa un gruppo di neoconservatori si è ripreso la scena con un pensatoio nuovo di zecca e dal nome apparentemente blando, Foreign Policy Initiative. Qui intendono proseguire la battaglia iniziata durante la Guerra Fredda per difendere la libertà nel mondo, senza cedere alle tentazioni dell’isolazionismo.
Ritroviamo due vecchie conoscenze: Bill Kristol, direttore del Weekly Standard e figlio del più celebre Irving – uno dei ‘fondatori’ della nuova destra americana – e Bob Kagan, autore di quel Paradiso e potere in cui si paragonava l’Europa ad Atene e gli Usa a Sparta. L’Europa come un paradiso post-storico che vive nella bambagia di una pace illusoria, e gli Stati Uniti che fanno ancora i conti con la guerra e il totalitarismo moderno.
Le dittature non sono scomparse con l’arrivo di Obama e secondo i curatori del manifesto vanno contrastate e combattute come sempre: “Gli Stati Uniti rimangono la nazione indispensabile per il mondo – indispensabile per mantenere la pace, la sicurezza e la stabilità della comunità internazionale, e indispensabile a salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che ci sono cari”.
Kristol e Kagan hanno salutato orgogliosamente la campagna obamiana in Afghanistan, giudicandola come un segno che Obama non pensa solo alla crisi interna. Il presidente non ha intenzione di tornare a una strategia pre-11 Settembre e la spesa per gli armamenti, un argomento che è sempre stato a cuore ai neocon, almeno per il momento dovrebbe reggere lo sforzo bellico.
Vincere in Afghanistan è una parola d’ordine anche per i centristi democratici del Center for American Progress di John Podesta, ma su questo punto concordano altri pensatoi come la Foundation for Defense of Democracies. Una delle grandi capacità dei neocon è stata quella di influenzare la politica estera delle amministrazioni che si sono succedute negli Stati Uniti dalla Guerra Fredda ad oggi. Durante l’era Clinton, Kristol e Kagan furono tra gli estensori del Project for a New American Century che ha elaborato la strategia usata da Bush dopo l’11 Settembre. Oggi ci riprovano con Obama.
Il problema con il nuovo presidente si chiama Russia. Quella stessa Mosca a cui Obama, ieri, è riuscito a strappare un accordo (prezioso per alcuni, inutile secondo altri) che prevede il passaggio sul territorio russo di soldati, mezzi militari ed aerei americani diretti in Afghanistan. A quale prezzo?
Il 2 giugno scorso sul sito della Foreign Policy Initiative viene pubblicata una lettera che ha tra i firmatari il senatore McCain, il repubblicano dell’Oklahoma Jim Inhofe e i ‘falchi’ democratici come il senatore Joe Lieberman. Questo raggruppamento trasversale implora Obama di non cadere nella trappola che gli stanno preparando a Mosca. Prima dell’incontro di ieri, infatti, Medvedev aveva già annunciato che i negoziati sul rinnovo del programma Start I non potevano essere distinti da quelli sullo Scudo spaziale (gli Usa vogliono alzare lo Scudo in Europa Orientale per proteggersi dall’Iran, Mosca la vede come una minaccia alla sua sicurezza nazionale). Per ottenere il disarmo (e altre clausole vantaggiose come il ponte per l’Afghanistan), gli americani avrebbero dovuto accettare le limitazioni sullo Scudo. Questa la posizione russa.
Ieri Obama e Medvedev hanno raggiunto un accordo sulla riduzione dei rispettivi armamenti atomici, che funzionerà come base della discussione per il proseguimento dello Start I (in scadenza il 5 dicembre). Obama ha ribadito la necessità dello Scudo ma l’ha slegata dalle trattative sul disarmo; Medvedev ha commentato dicendo che sullo Scudo ci sono stati dei “chiari progressi”. Obama si è quindi smarcato dai neocon che gli chiedevano di non cedere per preservare la sicurezza degli Usa e dei loro alleati. Ha vinto la linea più moderata del pensatoio di Podesta che in uno spot video sul “reset” con Mosca non fa riferimenti specifici alla questione dello Scudo.
Una spiegazione è che l’Afghanistan resta la priorità assoluta di questa prima fase del mandato di Obama. Ma l’accordo di Mosca potrebbe anche essere un segnale che il presidente ha deciso di resistere alle ‘iniziative’ dei neocon per seguire una sua linea indipendente in politica estera. Le ripetute dichiarazioni sulla “America che non è in guerra con l’Islam” vanno in questa direzione. Il discorso del Cairo e l’atteggiamento poco chiaro che l’amministrazione Usa sta avendo con il governo israeliano sono altri due esempi del potenziale disimpegno americano.
Israele è rimasto solo, suggerisce l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite, John Bolton. E potrebbe colpire presto l’Iran. Quello stesso Iran con cui Obama sta tergiversando. Ma è proprio sulla politica verso Teheran che emerge una contraddizione dell’iniziativa di Kristol e Kagan. Se Obama avesse abbandonato a mani vuote i negoziati con Medvedev, infatti, si sarebbe precluso la possibilità di costruire una ‘coalizione’ contro l’Iran che oltre all’Europa comprenda anche la Russia (o almeno abbia il suo appoggio). Possibilità che non è del tutto remota né irrealistica quando si tratterà di inasprire le sanzioni contro il regime di Ahmadinejad.
Mosca è di nuovo un attore che non può essere escluso dal “grande gioco”, ma per gli eredi dei neocon che sconfissero l’Unione Sovietica questa possibilità è come fumo negli occhi.