In Siria cade il muro della paura e si alza l’allarme terrorismo

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In Siria cade il muro della paura e si alza l’allarme terrorismo

23 Marzo 2011

“Con Assad è proibito il disaccordo”, disse nel 1986 un collaboratore di Amine Gemayel, allora presidente del Libano, dopo un incontro a Damasco con Hafez al-Assad, allora presidente della Siria.
Quando nel 2000 il potere passò da Hafez al-Assad, deceduto in quell’anno, a suo figlio, l’attuale presidente siriano Bashar al-Assad, il popolo e la comunità internazionale furono illusi dall’abbaglio di un “presidente giovane” che avrebbe accolto le richieste del suo popolo in materia di riforme.

La posta in gioco era alta, e il regime siriano non poteva permettersi di giocare le carte sbagliate. Dunque, il regime è rimasto lo stesso – il Baath – così come il metodo di controllo del potere, affidato alle onnipresenti antenne dei servizi di sicurezza siriani, i Mukhbarat, e alla polizia politica. Dopo la caduta di Saddam Hussein in Iraq, quello siriano è rimasto l’ultimo baluardo del regime baathista. La Siria, oltre ad opprimere militarmente e politicamente il Libano, ha continuato a fare pressioni sull’Occidente, e in particolare sugli Stati Uniti, giocando la carta del “terrorismo”. Tuttavia, come accade in natura, il terremoto arabo che ha avuto il suo epicentro in Tunisia ha raggiunto anche a Damasco.

A seguito dei primi moti insurrezionali, in particolare in Egitto, il regime siriano si affrettò a ribadire che il “sistema era stabile”, mostrandosi a favore della caduta di Mubarak e accennando a un’alleanza con l’Iran per rafforzare il loro asse nella fase successiva. Ciò portò, lo scorso mese, alti funzionari del Ministero degli Esteri siriano a presentare un rapporto riguardante l’Egitto e gli altri paesi arabi, in cui veniva evidenziata proprio la necessità strategica di rafforzare l’alleanza con Teheran al fine di portare l’Egitto fuori dall’orbita filo-americana e inserirlo in quella siro-iraniana. Al fine di dare sfogo alle tensioni interne, il regime di Damasco aveva anche aperto l’accesso a Facebook e Youtube, non temendo tali strumenti mediatici vista la scarsa copertura di internet in Siria. Tuttavia, nell’arco di poche settimane, migliaia di utenti, molti dei quali probabilmente dall’estero, hanno iniziato a formare gruppi di incitamento a manifestazioni e appelli alla rivoluzione in Siria.

Sulla cresta dell’onda delle rivolte in Egitto, e incoraggiati dall’abbattimento del “muro della paura”, già lo scorso mese centinaia di siriani iniziarono a organizzare manifestazioni di protesta a Damasco e in altre aree del paese, sfidando il divieto di manifestazioni imposto dallo “stato d’emergenza” in vigore dal 1963.  Contro lo “stato d’emergenza” si sono fino ad oggi espresse numerose Ong siriane, chiedendo anche l’approvazione di una legge che autorizzi la formazione di altri partiti politici oltre al Baath.

Il 17 febbraio scorso, decine di siriani manifestarono nel cuore di Damasco contro “l’oppressione” del regime. Gli slogan della manifestazione erano simili a quelli della piazza tunisina e di quella egiziana – “no al regime dittatoriale”, “no alla polizia politica”- e alcuni anche di carattere religioso. Due settimane prima, denuncia Human Rights Watch, le autorità siriane avevano aggredito 15 manifestanti siriani nella capitale, riunitisi per dimostrare la loro solidarietà al popolo egiziano.

In questo clima di fermento, tornano ad alzare la voce anche le varie associazioni siriane per i diritti umani, attive soprattutto fuori dal paese. Alcune settimane fa, si legge sul quotidiano arabo “Al-Quds al-Arabi”, Ayman Abdennour, attivista siriano residente a Dubai, scriveva sul suo sito che la Siria “ha bisogno di una nuova costituzione, che va riscritta da tutte le comunità, in modo da rispecchiare l’odierna società siriana, diversa da quella del 1973”, anno in cui fu promulgata per volere dell’allora presidente Hafez al-Assad. In un articolo della costituzione siriana, viene sancito che “il partito Baath è capo dello Stato e della comunità”.

Persistendo nel non voler ammettere la minaccia esistente per il suo regime, lo scorso 7 marzo il presidente Bashar al-Assad, in occasione del 48° anniversario dell’ascesa al potere del Baath in Siria – 8 marzo 1963 – ha emanato un’amnistia generale per tutti i detenuti che si erano macchiati di un crimine fino al 7 marzo 2011, escludendo però i “detenuti politici”, e dimostrando in questo modo non soltanto il rifiuto di un processo democratico ma soprattutto il timore che il suo regime possa cadere.
Tuttavia, la prima scintilla delle proteste in Siria si è avuta la scorsa settimana, ed è partita da Damasco.

Tutto sembrerebbe scaturito da Facebook, e in particolare dalla formazione di un gruppo intitolato “La rivoluzione siriana contro Bashar al-Assad 2011”, con oltre 70 mila utenti. Spinti anche da questi incitamenti, venerdì scorso, dopo la preghiera nella moschea Omayyade di Damasco, centinaia di manifestanti si sono riversati in strada per chiedere “libertà”. L’intervento massiccio e violento delle forze di polizia del regime non si è fatto attendere, e si sono registrati alcuni scontri che hanno provocato anche alcune vittime.

È evidente dunque che “il muro della paura” è caduto anche in Siria, ed è questo il primo elemento che traspare dalle rivolte. Nei giorni passati, si sono moltiplicati gli appelli diffusi su Facebook. Migliaia di siriani, lunedì scorso, sono scesi in strada a Deraa, nel sud del paese per protestare contro il regime. Anche questa volta, sono intervenute le forze dell’ordine, ma il bilancio di 15 morti potrebbe rappresentare il punto di non ritorno per il regime. Il movimento di protesta è stato già soprannominato “Rivoluzione del 15 marzo”, e gli amministratori del gruppo su Facebook – “La rivoluzione siriana contro Bashar al-Assad” – hanno esortato l’Esercito siriano a unirsi al popolo.

La Siria, è noto, non è né la Libia né l’Egitto. Il suo regime ha dimostrato negli ultimi decenni di essere in grado di controllare il potere, e di non avere alcuno scrupolo nel farlo. Ma soprattutto, ciò che differenzia il regime di Damasco dalla Libia e dall’Egitto sono le carte che ha da giocare, tre in particolare: l’asse di ferro con l’Iran, la sua posizione nei confronti di Israele e infine, ma non per ultima, la questione terrorismo. È questa la carta che Damasco ha fino ad oggi utilizzato come asso nella manica per tenere in costante allerta l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti. Sentendosi minacciato, il regime di Damasco, come ha già fatto in Libano, non esiterebbe a riutilizzarla.