In Svizzera ci sono 300 miliardi di euro italiani. Nuovo scudo fiscale?

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In Svizzera ci sono 300 miliardi di euro italiani. Nuovo scudo fiscale?

31 Marzo 2009

Come già detto in altri passati interventi il segreto bancario è ormai in discussione e concretamente a rischio su scala internazionale.

La Svizzera, in particolare, ha dovuto fare i conti con la vicenda UBS, la principale banca della Confederazione elvetica, che, messa alle strette dal Fisco americano, ha fornito i nomi di 250 suoi clienti sospettati di frode fiscale.

L’istituto bancario pagherà inoltre ben 780 milioni di dollari per evitare ancor più pesanti conseguenze e soprattutto per scongiurare il ritiro della licenza da parte delle autorità americane.

Come si dice, però, l’appetito viene mangiando e il Fisco americano, ottenuta questa prima vittoria, forte anche del fatto, non di poco conto, che la Federal Riserve di Washington aveva offerto alla banca centrale elvetica una linea di liquidità di dollari, necessaria anche a finanziare il trasferimento di quasi 60 miliardi di dollari di titoli americani tossici dal bilancio UBS a quello della stessa banca centrale (senza cui, probabilmente, UBS sarebbe già crollata sotto il peso di decine di miliardi di dollari di svalutazioni sui suoi investimenti americani), ha subito chiesto i nomi di altri 52.000 clienti della banca Svizzera, accusati di aver nascosto tra le cime innevate quasi 15 miliardi di dollari.

UBS, però, si è rifiutata di fornire ulteriori nomi e si è opposta alle richieste americane, anche in sede giudiziaria.

La distinzione dei due casi deriva dal fatto che in Svizzera il segreto bancario cede soltanto davanti alla frode fiscale (quando cioè si pongono in essere comportamenti, come, per esempio, la falsificazione dei documenti, comportamenti cioè che mirano ad ingannare attivamente il Fisco), perseguita infatti anche in sede penale, ma non davanti alla “mera” evasione fiscale, quale appunto la mancata denuncia al Fisco di redditi imponibili (senza ulteriori artifizi ingannatori).

La notizia della rivelazione dei nomi ha comunque destato grande preoccupazione nei correntisti della banca. E non è forse un caso che nel quarto trimestre dell’anno il private e l’investment banking di UBS abbiano registrato deflussi netti per 58,2 miliardi di franchi, chissà dove dirottati (forse a Singapore o a Hong Kong, dove il segreto bancario resiste). Del resto, subito dopo il precedente americano, anche l’Unione Europea ha fatto sapere di volere eguale trattamento su eventuali casi di frodi fiscali da parte di clienti comunitari.

L’Unione Europea, però, ha in realtà già fatto un accordo con la Svizzera su tale materia, prevedendo, in cambio del riconoscimento, di fatto, del segreto bancario, un’euroritenuta per i cittadini UE che hanno patrimoni in Svizzera, con aliquote da versare agli Stati dei depositanti sui loro redditi da capitale. Anche tale accordo non copre però le ipotesi di frode.

Sul fronte europeo, allora, la strada suggerita per trovare un compromesso soddisfacente per tutte le parti in causa, sembra essere quella della revisione di tale accordo. Anche considerato che spesso la stessa euroritenuta viene aggirata, grazie a prodotti strutturati, creati dalle banche in modo da nascondere gli interessi ed evitare quindi la medesima ritenuta. Un’ipotesi di flat tax su tutti i conti correnti dei non residenti, per esempio, eviterebbe tale problema.

Un’ipotesi intermedia potrebbe inoltre consistere nell’allargamento dei soggetti e della base imponibile, con l’inserimento delle persone giuridiche e dei redditi finanziari, finora esclusi.

Il 6 marzo scorso, comunque, il Consiglio federale elvetico ha deliberato il mantenimento del segreto bancario. Lo scopo del segreto bancario, si legge in un comunicato del Ministero delle Finanze svizzero, non è infatti quello di proteggere i reati fiscali, che, peraltro, come detto, sono perseguibili anche in Svizzera.

Tuttavia, nella stessa seduta, il Consiglio ha anche preso la decisione di potenziare la collaborazione con i paesi esteri contro i reati fiscali. La contromossa europea (anche se ufficialmente ancora non ammessa), per incentivare il rientro dei capitali nei rispettivi paesi di origine, sembra essere quella del ricorso ai cosiddetti scudi fiscali (o addirittura ad un unico scudo UE).

In Italia l’esperienza risale al periodo 2001/2003, quando vennero in tal modo riportati in patria circa 83 miliardi (con un’aliquota molto contenuta, pari al 2,5% del riemerso).

Una riedizione dello strumento, però, oggi, visti i tempi di crisi, dovrebbe essere comunque molto più “serrata”, prevedendo almeno un vincolo di impiego; in titoli di Stato, per esempio, o comunque destinandone il reimpiego nelle imprese, al fine di rilanciare gli investimenti.

Insomma, la posta in gioco è molto alta, anche considerato che si stima che siano ad oggi “parcheggiati” in Svizzera circa 300 miliardi di Euro italiani. Forse anche per questo motivo l’Italia, come recentemente annunciato dal Ministro Frattini, sarà tra i primi Paesi a negoziare con la Svizzera la modifica dell’accordo bilaterale esistente per combattere i fenomeni della frode e dell’evasione fiscale.