In un sogno perpetuo

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In un sogno perpetuo

23 Maggio 2010

Üres sedeva sulla sabbia candida di fronte al mare azzurro. Il sole accendeva sull’acqua sparsi barbagli e una brezza costante addensava onde minute sul litorale abbacinato. A destra e a sinistra la spiaggia continuava a perdita d’occhio sotto il cielo trasparente. Mentre fissava quell’orizzonte luminoso, Üres sentì dentro di sé, a oblique profondità, sfaldarsi grumi opachi, da ciechi interstizi gli alitò sul volto un’aria diversa, ombre pesanti passarono rombando su uno sfondo rosseggiante che pulsava ritmico in un respiro immenso, coprendo voci discordi…

Poi la visione scomparve, lasciandogli un senso di vago sconforto. Si ritrovò di fronte al mare deserto. I riflessi si moltiplicavano nell’azzurro, lontanissimi sulla destra i vulcani mandavano come sempre il loro tenue vapore nel cielo, ma a Üres pareva di essersi un po’ smarrito, di non appartenere più a quel nitido meriggio; una sottile pellicola elastica lo separava dalle cose, lo respingeva in alto, facendolo galleggiare sulla sabbia torrida con cui non riusciva più ad avere un contatto reale. Nel mare luminoso passò un plesiosauro lontano: inarcava nuotando il lungo collo e dietro si lasciava una traccia spumeggiante dove il sole infinitamente si rifrangeva.

Üres si scosse, scrutò la trasparenza dell’acqua, vi entrò fino alla vita e poi si tuffò. Nuotava con gli occhi aperti in quell’azzurro colmo e sodo, attraverso fitte nervature di luce che il suo corpo fendeva e scomponeva in una miriade di bollicine sciamanti, come creaturine acquatiche in fuga. Quando tornò sulla spiaggia la pelle intrisa di luce gli scintillava, i piedi lasciavano sulla rena impronte fulgide come gioielli, che evaporavano subito. Si diresse nel vento verso i ciclopici gradoni di basalto che s’innalzavano neri contro il cielo, tra scoscendimenti e fessurazioni. Ai piedi dei gradoni, su uno sperone piatto, sorgeva la Casa, coi terrazzi, le finestre larghe scintillanti di cristallo e alluminio, i balconi protesi sotto i profili dei frangisole. Fissò le bianche muraglie contro il nero dei basalti, poi volse lo sguardo ai pennacchi remoti dei vulcani, immobili e trasparenti, e si smarrì di nuovo nel pomeriggio ventoso… Dietro di lui, nel mare turchino, passarono i profili di animali giganteschi, messaggeri di abissi.

Il salone a emiciclo era pieno di tavoli; gli abitanti della Casa cenavano in un sommesso brusio. Dalle finestre spalancate entravano folate d’aria salmastra e i colori del tramonto; i coni appena rilevati dei vulcani si avvolgevano in un pulviscolo sanguinoso e le colonne di vapore si ergevano più vigorose, offuscando il sole  vermiglio. I profili delle terrazze, dei cornicioni bianchi e dei parapetti convergevano in angoli decisi, puntando verso invisibili traguardi nel cielo. L’aria aveva una trasparenza vibratile e la montagna nera vi penetrava con una tensione minacciosa.

A un tavolo periferico sedevano Üres e la sua compagna Széles. Quasi in un soffio l’uomo disse:

– Oggi mi è accaduto di nuovo.

La bocca della donna si contrasse e una ruga sottile le si formò in mezzo alla fronte. Restò immobile in attesa.

– Proprio qui, sulla spiaggia, – continuò Üres. – Mi sono sentito in un posto diverso… in quel posto. Ma non è solo un posto diverso, è tutto diverso, anche il tempo, e c’è qualcosa nell’aria, un’infiltrazione di suoni, di colori o di macchie, e voci dappertutto, e poi… un ansito, un ansimare rauco e sotterraneo.

Széles lo ascoltava con gli occhi spalancati, la ruga diritta in mezzo alla fronte, annuendo piano per aiutarlo a trovare le parole giuste. Egli fissò lo sguardo oltre le vetrate, oltre il parapetto della terrazza. Sulla spiaggia, dove moriva la carezza delle piccole onde, era tutto un pullulare di pagliuzze luminose che parevano di metallo fuso.

– La spiaggia, il mare, era tutto scomparso, ma non era una visione, ero proprio in un altro posto… anzi mi pareva…

Il viso di Széles era pallidissimo nella viva cornice dei capelli. Mosse appena le labbra:

– Ti pareva…

– Mi pareva che il mio vero posto fosse là, mi pareva che le cose importanti accadessero là, non qui… non so come spiegarti… era come se la Casa, queste rupi nere, i vulcani laggiù e tutti quelli che abitano qui non avessero niente a che fare con me, come se la mia presenza qui fosse un caso, un evento accidentale… E’ tutto così lontano, così diverso, ma c’è una scorciatoia per giungere fin là… e questa scorciatoia io l’ho trovata, non so come, e l’ho già percorsa tre volte…

Gli occhi azzurri della donna si fissarono sul flaconcino di pastiglie che stava al centro del tavolo e Üres seguì il suo sguardo:

– Sì, – disse, – la prima volta è capitato quando ho dimenticato di prendere la pillola… la seconda volta non l’ho presa apposta…

– E ieri sera? L’hai presa ieri sera?

– No, – disse Üres dopo una breve esitazione, – non l’ho presa, perché quei viaggi mi attraggono con forza irresistibile. Credo proprio che in qualche modo c’entrino queste pastiglie… Sai, sono viaggi angosciosi… quell’ansimare, quel cielo rossastro pieno di ombre confuse… provo una nausea che si raccoglie come un ciottolo duro qui, alla bocca dello stomaco… eppure sento che il desiderio di quel luogo è legato a una parte di me profondissima, che straripa attraverso fessure, che cola, che m’invade pian piano. E quelle fessure si allargano e ne esce una materia sempre più abbondante, viscosa, che forma una pellicola trasparente e tenace che si frappone tra me e tutto quello che mi circonda…
La voce di Üres era bassissima, quasi un bisbiglio. Nella sala che s’andava oscurando gli altri continuavano a mangiare con gesti meccanici, qualcuno già apriva il flaconcino delle pastiglie. La distesa del mare prendeva il colore del bronzo.

– Széles, – continuò Üres, – ti sei mai chiesta perché non abbiamo ricordi? Eppure sono in grado di farti questa domanda, cioè posso chiederti perché non abbiamo ricordi. E’ strano, non ti pare? A volte mi concentro, chiudo gli occhi e cerco di arretrare… ma trovo solo una fila di giornate come questa, indistinguibili nei colori del mare, nel silenzio delle terrazze, tra questa gente che conosco da sempre, e la notte… la dolcezza e l’urto del tuo corpo contro il mio e, dopo, la pace… Ma dove comincia tutto questo? Dove sono le tracce del tempo, i segni delle mutazioni? Invece là… non so che cosa ci sia là, ma c’è qualcosa che scorre, che brucia come una fornace, che cresce e poi cede di schianto… e quell’ansito di bestia infinita che pulsa come un cuore e in cui il cuore di tutti si riconosce…

– Su, prendi la pastiglia, ti farà bene.

Széles lo guardava con affetto e inquietudine, mentre con un sorso d’acqua inghiottiva la minuscola pillola e gliene tendeva una sul palmo aperto.

– No. Non voglio prenderla. Non posso prenderla, voglio vedere che cosa c’è là.

La sala si stava vuotando; la gente usciva sulla terrazza a coppie, a piccoli gruppi. Üres prese la donna per mano:

– Vieni, – le disse, – usciamo anche noi.

Fuori il vento s’era fatto più forte e girava intorno alle vetrate. Andarono fino al parapetto e contemplarono la spiaggia: una vasta fosforescenza animava la sabbia fino all’orizzonte, i rettili marini segnavano l’acqua di scie luminose che si dissolvevano come stelle cadenti, i pennacchi di vapore sopra i vulcani si tingevano alla base di bagliori sanguigni. La notte avanzava ormai rapida e nella semioscurità coloro che passeggiavano sull’impiantito della terrazza, avvolti nelle tuniche bianche, avevano un’aria trasognata. Certe coppie si tenevano per mano e sorridendo guardavano il mare o i vulcani, o punti ancora più distanti, invisibili agli altri.

* * *

Dalle finestre della sala di controllo la vista spaziava per un ampio tratto sulla brughiera. Gloria osservava gli arbusti scossi dal vento, il bosco lontano e le vaste cicatrici delle vecchie cave sulle colline di fronte. Nel tramonto la stradina asfaltata che portava al Centro cronosperimentale aveva preso un colore livido e si confondeva con le dune piatte. Il cancello d’ingresso, sorvegliato da due soldati, puntava verso il cielo le sue esili aste lanceolate. Non lontano, in un angolo del cortile presso il muretto, gli altri uomini del corpo di guardia avevano acceso un focherello di assi e sterpaglia, da cui si levava una colonna di fumo soffocato che il vento sfilacciava subito.

Gloria osservò i soldati. Erano tutti giovanissimi, ma talvolta le facevano paura: quando passava per il cortile la guardavano con occhi adesivi, volgendo lentamente il capo, senza parlare, senza sorridere. Anche ora uno dei soldati aveva cominciato a fissarla attraverso la finestra; seguendo il suo sguardo, gli altri si misero subito a guardarla, immobili, senza più badare al fuoco. La ragazza si ritrasse e andò verso gli schermi d’osservazione.

Il segnale di preallarme continuava a lampeggiare. Dal compatto disegno filigranato che sullo schermo principale rappresentava la stabilità cronologica dell’esperimento EC usciva un’esile sbavatura azzurrina, un po’ arricciata. Quella sfilacciatura avrebbe potuto compromettere l’EC; era una smagliatura che poteva estendersi a tutta la costruzione compatta della stabilità. Era per quel filamento sottile che da due settimane la lampadina gialla del preallarme continuava a pulsare in silenzio; era per quella scucitura nel tessuto dell’EC che il direttore del Centro, Szív, si era finalmente deciso a far chiamare il responsabile del progetto, dottor Kés.

* * *

Sulla terrazza, appoggiati al parapetto, stettero a lungo in silenzio. Üres prese la mano di Széles; in quella consistenza carnea, in quel liscio tepore cercò una giustificazione, una risposta, una sicurezza. Ma da regioni sconosciute del cuore gli giungeva un richiamo oscuro, qualcosa di dolorante lo premeva, urtandolo con affetto. Un greve tormento si confondeva con la luminescenza dell’oceano, disponendosi su ripiani di fuga verso prospettive stratificate nel cielo che s’increspava arrotolandosi ai margini come una pergamena in fiamme e sotto con rassegnata meraviglia Üres scorge un altro cielo più fosco e più vero, lontano tanti milioni di anni che con smemorata pazienza vi si sono adagiati sopra variandone la consistenza e il colore, incidendovi dolorose cicatrici ormai rimarginate in tutto questo tempo, ma pronte a riaprirsi per un profumo o un suono magari appena accennati o anche solo immaginati, e proprio per quelle cicatrici del cielo che nessuna assoluzione, per quanto misericordiosa e totale può ormai richiudere, per quelle ferite riaperte precipita con un rombo tellurico la massa del tempo che Üres tenta di risalire controcorrente, minuscola creatura in cerca di sé stessa, lacerata dall’appartenenza a due mondi separati dall’avvicendarsi di stagioni inconciliabili ma uniti da interstizi pazienti in cui egli si è infilato per un caso che avrebbe potuto anche non uscire dal seno gigantesco delle ere, ma che ormai ne è uscito e del quale i singhiozzi che ora lo straziano sono la manifestazione ultima e sono proprio questi urti ripetuti del cuore che riescono a stracciare come una pelle troppo tesa quel velo che si frapponeva tra lui e il mondo.

E giunge finalmente a contatto con le cose, con quelle ombre inquiete che si muovono sullo sfondo rosseggiante e battente come un cuore gigantesco. E solo da lontanissime plaghe gli giunge il ricordo di Széles, della sua mano compatta che gli era parso di stringere nella sua, dei neri capelli vivi sotto le sue carezze, della bocca nido di baci durante le notti immemori del Cretaceo passate ad amarla nella Casa sotto la rupe di basalto, fra barriti lontani nelle foreste e il tremitare del mondo. Qui, nell’universo che lo ha chiamato a sé, sotto questo cielo fumoso la folla si dirige a mete sconosciute, marciando per sincrone spinte e cancellando ripetutamente il volto di Széles, i suoi occhi azzurri che si confondono ora con le pareti a picco di finestre illuminate, e per oscillazioni non del tutto smorzate il sussurro del vento marino si mescola al sibilo rauco di quell’essere che tutto accoglie nel proprio pulsare e verso il quale egli prova una soggezione riconoscente. E dalla folla degli anonimi corpi in movimento si stacca una donna bellissima che lo guarda o che guarda qualcosa attraverso il suo corpo che improvvisamente è diventato un cristallo iridato e purissimo e accenna lontano, mentre il vento le muove i capelli foltissimi e con una mano continuamente li scosta dalla bocca, dal viso, e agita l’altra mano a indicare qualcosa che Üres non può vedere nella sera troppo fosca, anche perché il suo corpo è già tutto cristallizzato e ogni movimento gli costa una fatica immensa, come a risalire le correnti precipiti del tempo.

Ma la donna lo chiama piano, con un tono insistente di supplica e sulle labbra non ha il sorriso che Üres le conosce dalle notti tiepide del Cretaceo e dietro le facce trasparenti del cristallo tutti i lineamenti della donna subiscono infine un’impercettibile metamorfosi ed è Széles che lo fissa con due laghi di spavento negli occhi mentre la folla si dilegua con un sospiro profondo e l’ansito metallico che regge il mondo si placa nel vicendevole fruscio del vento e i lampioni della terrazza dondolano piano…

La terrazza ormai era quasi deserta, nel mare passavano i rettili fosforici, i vulcani rosseggiavano nella notte e tremiti leggieri trascorrevano la montagna di basalto, le fondamenta della Casa, i balconi. Üres ritrovò nella sua la mano della donna, la portò lentamente alle labbra, ma mentre la baciava con tenerezza guardava oltre il parapetto, oltre il mare notturno, oltre il cielo che si era richiuso nelle sue stelle.

* * *

Gloria si chinò per osservare da vicino la sbavatura sullo schermo. Le parve un po’ più lunga, un po’ più contorta; alla sua base, dove si congiungeva al disegno a filigrana in apparenza così robusto, si era formata un’intaccatura quasi impercettibile. Ai suoi bordi la filigrana si era scomposta e tumefatta; ogni tanto un frammento azzurrino si liberava con un piccolo scatto e andava ad allungare alla base il filo che tremolava leggermente, come una cosa viva. Gli occhi della donna seguivano quelle lentissime disintegrazioni. «Che cosa succede laggiù?» si chiese; sentiva una vaga inquietudine, come se la sorte di quelle persone fosse in pericolo… Una ciocca dei lunghi capelli castani le ricadde sulla fronte e Gloria la scostò macchinalmente.

Si scosse quando Szív e Kés entrarono nella sala di controllo e accesero la lampada centrale. Si diressero verso gli schermi e la ragazza tornò alla finestra. Ora fuori era quasi buio e il bagliore del fuoco danzava contro il muretto. A Gloria quel piccolo rogo fumoso tra l’erba stenta del cortile dava un senso di sconforto; quei soldati taciturni, quell’orizzonte livido che schiacciava le colline basse…

– L’unica spiegazione possibile, – disse Kés dopo aver esaminato tutti gli schermi, – è che laggiù qualcuno stia sfuggendo al condizionamento cronologico. Come e perché, possiamo solo tentare di congetturarlo.

Gloria osservò il volto sciupato di quell’uomo che pareva più vecchio di quanto potesse essere. Szív chiese:

– Questo significa che qualcuno potrebbe tornare fin qui, cioè fino ad ora?

– Forse qualcuno è già arrivato fin qui, – rispose Kés lentamente, – ma non sappiamo il punto e il momento esatto dell’emersione… e non sappiamo neppure se si tratti di una o più persone. E poi… – guardò Gloria, poi Szív e poi di nuovo la matassa luminosa sullo schermo principale, – e poi non sappiamo se riusciranno a restare qui o se saranno ricacciati indietro… Potrebbero oscillare a lungo tra qui e il Cretaceo, magari per sempre.

La donna rabbrividì leggermente. Il fuoco in cortile andava spegnendosi, solo qualche tizzone rischiarava debolmente il volto dei giovani accovacciati in silenzio.

– L’unica cosa che si può dire, – riprese Kés, – è che c’è qualcosa che non va nell’EC, ma non possiamo ancora valutare la gravità dell’incidente. Forse si tratta solo di un problema personale, forse qualcuno laggiù è triste e vuole tornare…

Tacque per un po’, riflettendo; poi scosse la testa e disse:

– Per il momento non possiamo far nulla. Domattina proseguiremo l’esame della situazione.

Quando i due uomini furono usciti, Gloria spense la luce al centro della sala e tornò allo schermo. Il silenzioso sfilacciarsi della filigrana azzurrina si riverberava nei suoi occhi castani. Pensò che quel lento stillicidio di frammenti che abbandonavano  la grande struttura compatta era la muta testimonianza di un dramma lontano, ai confini del tempo. Le risonarono nella mente le parole di Kés: «Potrebbero oscillare a lungo tra qui e il Cretaceo, magari per sempre,» e poi: «Forse qualcuno laggiù è triste e vuole tornare…»

«Ma come si può voler tornare qui, in questo mondo soffocato, – pensò la donna, – dove non c’è più nulla di pulito, che annega nel proprio marciume, che ogni giorno di più sprofonda verso la morte? Perché non resti là, in quel mondo limpido e immenso, con quei milioni di anni di luce e di gioia davanti a te, da vivere con lo slancio che qui abbiamo perduto? Perché non resti sotto quel cielo terso, nelle foreste primordiali, sulle spiagge sconfinate e deserte? Ti abbiamo mandato là coi tuoi compagni per colonizzare il tempo e dare agli uomini un’altra possibilità… non tornare, non tornare qui!»
Gloria si riscosse e andò alla finestra. Giù il fuoco era ormai spento, ma nel buio le parve di scorgere le ombre più scure dei soldati. Nel cielo sopra le colline si riflettevano le luci della città immensa che per miglia e miglia si stendeva fino al mare oleoso. Altissime salivano le colonne infoscate del fumo dagli immondezzai in fiamme. Ogni notte venivano accesi quei roghi, ma non bastavano più a eliminare la massa enorme dei rifiuti che la città accumulava senza sosta…

In quel momento una cicala prese a suonare alle sue spalle. Gloria si volse e vide che la lampadina rossa del segnale d’allarme si accendeva e si spegneva, si accendeva e si spegneva…

* * *

E sempre più spesso mi lancio per gli interstizi del tempo, memore di una vita anteriore alle fissità della Casa sulla spiaggia, anteriore all’immutabile fila dei vulcani fumanti, con dolorosa riconoscenza mi precipito attraverso gli squarci spalancati in un mondo che pareva così compatto e celava invece nelle sue viscere agevoli crepe che si aprono alla mia meravigliata pazienza e ritrovo strade rombanti e grattacieli vertiginosi e il fremito delle macchine fra statue e bandiere che mi accolgono in un abbraccio confuso e tonante in mezzo a colpi di maglio e urli di sirene e sopra tutto questo mondo di ferro un respiro possente di bestia infinita che vigila e nutre il suo universo fangoso e corrotto da cui pure stilla la dolcezza di un antico seno materno per quanto avvizzito ed esausto da fameliche generazioni assiderate nei freddi preistorici nei terrori ancestrali che si placano infine contro questo cielo fumoso e violento di ciminiere e turriti palazzi da cui esce innumerevole la folla che si contende l’aria rancida e solforosa. La frenesia si stende su questa sera tiepida di sudore mentre il cielo terso del Cretaceo nelle notti illuni diventa un simbolo senza vigore, si contrae in un puntino dell’anima che quasi non duole più e che inutilmente lancia il richiamo delle sue stelle a milioni sopra la Casa silenziosa mentre Széles si agita in silenzio sotto di me nell’inesausta ricerca di un’altra spiegazione che però non spiega nulla e intreccia le sue dita alle mie e mi chiama con tutto il corpo e ormai mormora quelle frasi spezzate e io vedo i suoi occhi spalancarsi nella penombra accesa dai vulcani lontanissimi che ardono senza suono sotto quella volta nera crepitante di fosforici astri.

E qui mi ritrovo nel rombo delle fornaci, nel lampo dei treni lanciati come pugni contratti e dico sì, sì, e non importa se da questa folla scolorita di occhi capelli mani gambe invece del viso innamorato di Széles, se invece dei suoi occhi pieni di azzurro stupore, dei suoi capelli vivissimi e neri sulla fronte pensosa, non importa se da questa folla cieca che si specchia nelle ampie superfici annerite di incomprensibili macchine, non importa se da questa folla che mi evita formando sul marciapiede polveroso della sera uno slargo intorno al mio corpo, un alveolo intorno al quale si levano ritmici e sordi i passi di tutte le gambe scanditi da orologi invisibili e rigorosi che confluiscono in quel greve ansito cadenzato che fa muovere tutti questi uomini macchine fucine, non importa se da questa folla che potrebbe calpestarmi visto che sono a terra e nonostante i miei sforzi non riesco a sollevarmi e posso soltanto vedere fra il turbinio dei passi le impronte umide e confuse che le mie mani lasciano nella polvere grassa del marciapiede, questa folla che potrebbe calpestarmi e schiacciare il mio corpo nell’unto di questa torrida sera d’estate e che invece mi risparmia, forse per un decreto nascosto in quell’ansimare che regola uomini e macchine, non importa se protendendo unghie, dita, visiere, luccicanti bottoni che si staccano dalle altre cromature sfavillanti per mettersi quasi al livello dei miei occhi, non importa se un poliziotto gigantesco mi ghermisce mi scuote mi solleva e per larghe strade fragorose, per vicoli sonori di passi, per scale maleodoranti mi trasporta in una stanza dove all’improvviso ritrovo un silenzio che mi scava ronzando nel cervello e in cui mi getto nudo come sono in un angolo e accarezzo la parete sudicia che mi sovrasta fino alla lampadina spoglia al posto di quel sole abbacinante sulla spiaggia del Cretaceo.

* * *

Gloria corse allo schermo: il filamento si era spezzato alla base e ora, disancorato, volteggiava piano nello spazio azzurrato intorno alla struttura centrale. Dove si era staccato si vedeva una piccola ferita che pulsava debolmente. La tristezza di qualcuno era forse finita, ma ora certo qualcun altro doveva soffrire…

La donna uscì per avvertire Kés e Szív. Fuori il bagliore fumoso del cielo tingeva di rosso l’erba del cortile, il muretto, i volti dei soldati senza sorriso.

* * *

– Mi sentite? Chi siete? Da dove venite? Come vi chiamate?

Le domande mi vengono ripetute all’infinito da voci alterne, da bocche in movimento sotto la nuda lampadina mentre guardo il lenzuolo che mi copre e pare una tunica della Casa, ma dalla finestra non vedo la rupe di basalto e non entra il vento vicendevole della notte, solo un fremito di stanchezza si propaga per la città che inclina a un sonno agitato nel vigile respiro che penetra fin qui, tra gli acri odori portati da una flaccida brezza, fino all’ufficio di polizia dove rimbombano le domande cui non so dare risposta.

– Come vi chiamate? Chi siete? Dove abitate? Che lavoro fate?

Finché dal fondo di lontani corridoi che presagisco nudi e squallidi suona un telefono e poco dopo cessano gli urli e le domande e qualcuno mi mette fra le mani un bicchiere e mi fa bere e di nuovo mi afferrano e mi sollevano e mi trasportano giù per le scale fino al vicolo dove aspetta un furgone e in silenzio mi fanno cenno di entrare e subito entro e seggo fra due poliziotti che non dicono niente per tutto il viaggio che dura un tempo che non so calcolare tra colonne di fumo rossastro che si levano qua e là nella campagna notturna e poi tutto finisce in un sonno nero come la pietra.

* * *

Gloria socchiuse la porta con cautela e le sue narici aspirarono un odore pungente, come di canfora. Restò qualche istante immobile sulla soglia; l’oscurità era stemperata solo da una lampadina lontana che perdeva la sua luce nello stanzone immenso. Cominciò a intravvedere le sagome degli armadi vetrati, degli strumenti incappucciati nei teli antipolvere, dei tavoli carichi di scatoloni. Avanzò piano verso il lettino dove giaceva l’uomo, completamente nudo, le braccia e le gambe legate con cinghie di cuoio. Si chinò su di lui e ne ascoltò la respirazione debolissima; nel volto pallido gli occhi chiusi erano due chiazze d’ombra, la bocca un taglio diritto, senza calore. Lo fissò a lungo, mentre dentro le si faceva strada una consapevolezza struggente, come se da sempre avesse atteso che quell’uomo giungesse fino a lei per portarle un ricordo o un presagio. Il cuore le traboccò di domande: «Chi sei, da dove vieni, che cosa vuoi da me?» ma le sue labbra rimasero immobili mentre il suo volto bellissimo si avvicinava a quello del dormiente. Allungò una mano e gli sfiorò col dito la fronte liscia, poi il collo, il mento; percepì sotto la pelle un brivido febbrile e nel polpastrello le rimase un calore elettrico, remoto e consenziente. Attraverso le vetrate polverose baluginava un cielo dove le stelle erano tutte morte.

– Chi sei, che vuoi da me, perché mi hai chiamata? – mormorò Gloria a fior di labbra, il viso intento incorniciato dai lunghi capelli castani; poi si chinò e baciò piano quella bocca ferma. Un fremito percorse il corpo dell’uomo, una contrazione dolorosa gli scompose il viso, le sue labbra si aprirono e si chiusero in cerca di più aria.

– Széles, Széles, – disse piano, – non vedo nulla… dove sono i tuoi occhi? Qui è buio, non odo il vento che gira intorno alla Casa, hanno chiuso tutte le finestre… Széles, dov’è la tua mano? Un po’ di luce… hanno chiuso tutto… la tua mano, dammi la tua mano…

Gloria gli sfiorò le dita con le sue. Üres le strinse debolmente e parve calmarsi:

– Sì, così, la tua mano… – ma poi si contrasse tutto e inarcò la schiena, tentando di liberarsi dalle cinghie.

– Széles, – ora quasi gridava, – hanno chiuso tutto, non ci possiamo vedere, non sento la tua voce…

Aprì gli occhi e Gloria si specchiò sgomenta in quelle pupille dilatate che lentamente la mettevano a fuoco e scrutavano il suo volto nella penombra del magazzino.

* * *

La Casa bianca sotto i gradoni di basalto è avvolta nella diafana oscurità della notte e immemori costellazioni ardono senza rumore nel cielo purissimo. Sulla grande terrazza sta Széles, gli occhi fissi sul mare fosforico; il vicendevole vento le scompone i capelli, le preme la bianca tunica sul seno eretto. E’ proprio in quel punto che la notte prima Üres è scomparso per seguire quell’insistente richiamo che doveva precipitarlo in un mondo che lei ignora. E qui, nello stesso punto, ora Széles l’aspetta, negli occhi dolcissimi una domanda che non sa formulare.

La Casa dorme e dalle foreste sul pianoro giungono barriti lontani. Si perde nella brezza il tepore del giorno; i ricordi stratificati dell’amore prendono forma nel corpo della donna e il rimpianto filtra piano nel cuore. Che attendi lì, Széles, nella tiepida notte del Cretaceo, sotto le turbinose galassie? Quale filo tenace lega ancora, attraverso i labirinti del tempo, la tua speranza all’uomo che ami?

La Casa riposa come un enigma sotto la rupe di basalto, seme gettato nei secoli mesozoici per una storia novella dell’umanità. Lune gigantesche crescono e svaniscono nel cielo turgido e dalla fila dei bassi vulcani si propagano sordi tremori per le ossa del mondo. Il mare è solcato da dinosauri insonni che inseguono le stanche chimere delle loro coscienze di piombo. Scorre la vita verso il futuro per sentieri inconoscibili. Széles aspetta, minuscolo grumo di dolore nella notte dolcissima.

* * *

Üres guardò la donna che lo guardava. Nella penombra il volto di Gloria era tutto un dilatato stupore.

– Chi sei, che vuoi da me? – gli chiese in un soffio.

– Non so più chi sono, vengo da tanto tempo fa… resta accanto a me, lascia che tenga la tua mano, altrimenti cado di nuovo all’indietro nei precipizi… Non avevo mai visto il tuo volto, ma ora è come se lo conoscessi da sempre, da prima di…

Chiuse gli  occhi nello sforzo di estrarre qualcosa dalle profondità del ricordo; poi scosse la testa e continuò:

– No, non ci riesco, c’era qualcosa che mi chiamava con insistenza e mi pareva che quel cielo troppo azzurro non fosse mio, stavo sulla spiaggia abbagliante e guardavo passare al largo i plesiosauri e le chimere, ma c’era qualcosa che m’invocava, un ansito rauco contro un cielo rossastro, più profondo e più vero di quello limpido sopra la Casa… e la notte gli occhi di Széles, il suo corpo elastico. Ho lasciato l’umidore dei suoi baci… dove sono le tue carezze, Széles?

Guardò fisso il volto di Gloria e gli si riempirono gli occhi di lacrime.

– Chi sei tu? Tu non sei Széles. Che faccio qui? Dove sono i vulcani, dov’è il mio cielo nel vento?… Tornare, tornare da te, ma non trovo più la strada, le fessure si sono serrate… vedo Széles che mi fa cenno attraverso le riviere del tempo che vaporano strazio, e tutto si deforma… i suoi occhi si spalancano nei miei e cercano una risposta alle domande che si addensano tutte insieme e salgono come avvoltoi dagli alveoli della memoria e non so rispondere se non con questi singhiozzi che mi squassano tra qui e là… ma un cielo rosso mi chiama col suo respiro profondo e di nuovo precipito a lungo, delirando…

E vede davanti a sé Gloria bellissima che lo guarda con infinito amore o che guarda qualcosa attraverso il suo corpo, diventato d’un tratto iridato e trasparente come un cristallo e indica lontano e le sue labbra si muovono e c’è un vago sorriso su quella bocca che si avvicina alla sua, in quegli occhi che vogliono fondersi così vivi e bruni nei suoi, c’è un’arsura inestinguibile in quella pelle nuda che aderisce tutta alla sua e gli pare che la chiusa penombra si allarghi nella vacua oscurità della notte stellata, mentre dalle foreste sull’altopiano vanno profumi ancestrali e il vento entra per la finestra spalancata proprio accanto al letto e Széles è sopra di lui col corpo bruciante premuto sul suo, ma gli occhi di Üres sono pieni delle stelle che ardono nel cielo a migliaia e si confondono nelle lacrime, perché non è più là e non è neppure qui, ma è il calore di Gloria che lo sta amando con infinita misericordia a riaprirgli i corridoi del tempo e di nuovo si smarrisce nelle oscillazioni che ricominciano sempre e quando finalmente l’urto ritmato della donna si placa nell’abbandono, allora tutte le stelle precipitano sfrigolando nel mare del Cretaceo che ribolle di cupe fosforescenze dai fondali insondati e in questo cielo che cade senza fine si confondono i volti, gli occhi, i corpi dolcissimi di Gloria e di Széles che fluttuano in un sogno perpetuo…