Inchiodare Andreotti: quando la magistratura fallisce ci prova il cinema
29 Maggio 2008
Se si perde nelle aule giudiziarie si può ottenere una rivincita nelle sale cinematografiche? Con il caso Andreotti e con la pellicola “Il divo”, premiata a Cannes con il terzo premio, potrebbe avvenire proprio questo.
L’operazione è semplice quanto geniale: un regista di grande valore come Paolo Sorrentino si presta a consegnare all’immaginario dei prevedibilmente tantissimi spettatori che il film “Il divo” avrà avuto a partire da venerdì 30 maggio 2008, un ritratto dell’ex sette volte presidente del consiglio Giulio Andreotti esattamente corrispondente a quello tracciato dai pentiti di Cosa Nostra. E voluto credere per dieci anni come vero dai pm palermitani, da Giancarlo Caselli in giù, che hanno poi sostenuto in giudizio l’accusa per mafia contro di lui.
E infatti lo stesso Paolo Sorrentino, nelle innumerevoli conferenze stampa tenute sia a Cannes sia a Roma non ha fatto mistero di considerare Andreotti come un “criminale” e di avere voluto fare il film solo per consegnare alla storia il famoso bacio tra Totò Riina e Giulio Andreotti che nella realtà nessuno riesce a immaginare come possa esserci stato.
Un film militante quindi, ideologico, eppure paraculissimamente bellissimo. Anche grazie a una recitazione da Oscar di Toni Servillo, esploso come attore di cinema in età ormai tarda ma con la luce di una supernova. Un po’ come fece a suo tempo Charles Bukowski nella narrativa americana (a 51 anni suonati).
A proposito della scena del bacio, Sorrentino alla conferenza stampa tenuta a Roma lunedì alla casa del cinema, ha letteralmente affermato: “Altro che dubbi sulla sua opportunità: girare quella scena mi ha spinto a realizzare il film, dal punto di vista simbolico, l’idea di un abbraccio tra il potere e il contropotere è il massimo”.
Il messaggio è chiaro: questo potere della Dc, incarnato da Andreotti nei suoi massimi livelli per circa 50 anni, noi lo odiamo e lo vogliamo rappresentare colluso con la mafia. Ancora: se i magistrati che volevano riscrivere la storia d’Italia (l’ordinanza di rinvio a giudizio di Andreotti a Palermo, firmata dall’allora procuratore capo Giancarlo Caselli, venne effettivamente pubblicata in un volume intitolato “La vera storia d’Italia) non ci sono riusciti, a noi, con i mezzi di suggestione che ci danno il grande schermo e i 35 millimetri, chi ci ferma? Alla fine del film chi vorrà sarà libero di pensare che Andreotti un po’ mafioso deve esserlo stato per forza. Anche se è stato assolto.
E magari avrà pure fatto ammazzare Pecorelli.
E in effetti sin dalle prime riprese si capisce che per la trama si deve dare per scontato che la Dc di Andreotti stia dietro la strategia della tensione e delle stragi, da piazza Fontana in poi. E che Moro doveva essere ucciso per volere degli americani. E che la P2 governava l’Italia con l’aiuto dello stesso Andreotti e di Berlusconi e che tutti i delitti irrisolti degli anni ’70,’80 e ’90 devono per forza avere avuto dietro la “manina” del gobbo malefico. Che viene reso appena più umano dalle sue stesse battute recitate con mastria da Servillo.
Da Lima a Sindona, da Calvi a Moro, da Pisciotta a Gardini, il potere raffigurato da Sorrentino nella maschera di Toni Servillo e nelle non mentite spoglie di Giulio Andreotti, rassomiglia nella propria nettezza di connotati a quello delle canzoni di Fabrizio de Andrè.
In fondo anche le semplificazioni ideologiche e giudiziarie, che oggi farebbero la gioia di Marco Travaglio e di Michele Santoro (che non a caso ha dedicato la propria ultima puntata proprio a questo film), sono in realtà parte della peggiore eredità degli anni ’60 e del ’68 in particolare.
Appartengono alla famiglia della “controinformazione”, del giornalismo che seguiva le “piste”, dei pamphlet come quello ormai introvabile di Marco Sassano (che poi si sarebbe pentito di averlo scritto) secondo cui quella di piazza Fontana è stata una vera e propria “strage di stato”.