Ingeborg Bachmann o di come stare al centro della scena letteraria
05 Agosto 2010
di Vito Punzi
A più di dieci anni dalla sua apparizione nella sua versione originale tedesca, c’è da chiedersi se questa monografia di Hans Höller (La follia dell’assoluto, trad. di Silvia Albesano e Cinzia Cappelli, Guanda, Parma 2010, p. 230, € 18,00) dedicata a Ingeborg Bachmann conservi inalterato il suo valore. E subito va sottolineato un limite evidente nell’edizione italiana: l’assenza delle foto scelte dall’autore e presenti nel volume edito da Rowohlt. Immagini che mostravano, ad esempio, la scrittrice a colloquio con l’amato Paul Celan, con Friedrich Dürrenmatt. Poche, ma significative. Non tanto perché utili a completare i tratti della personalità della Bachmann. Al contrario, quelle foto documentavano tutto ciò che lei non è stata: non era una poetessa trasognata e indifesa, naufraga al cospetto delle dure esigenze della quotidianità. Piuttosto amava rappresentare se stessa in quel modo e così è stata spesso trasfigurata dalla comunità dei suoi lettori (femminili in particolare).
Certo si trattava di un’autrice riflessiva, e tuttavia non ha mai nascosto la sua aspirazione: accedere nel più breve tempo possibile “al centro del potere letterario”. La Bachmann possedeva quello spiccato talento utile alla “messa in scena di malattia e di sintomi idiosincratici”. È così che ha ottenuto i successi della sua carriera professionale: attraverso la scelta delle “armi” da usare al momento giusto e con le persone giuste. Peccato dunque per il “taglio” delle foto, e tuttavia la spregiudicatezza e la “duplicità” della scrittrice di Klagenfurt è adeguatamente rimarcata da Höller nel testo. Anzi, il maggior merito di questa sua monografia, di godibilissima lettura, sta proprio nell’aggredire gli stereotipi costruiti negli anni attorno alla figura della scrittrice e alla sua opera.
A proposito del come e perché la Bachmann sia diventata una celebrità nel contesto della letteratura di lingua tedesca degli anni Cinquanta, per esempio, Höller ricorda come lei sia stata semplicemente più abile di altri nell’uso della propria lunga esperienza di giornalista e nel farsi proteggere da alcuni “patriarchi” della letteratura viennese (Celan e Weigel in particolare). La Bachmann è stata così brava nel recitare la parte della donna talentuosa ma senza potere, che agli uomini non pareva vero di sentirsi assegnato il ruolo dei salvatori e dei taumaturghi. Anche perchè lei sapeva bene come dimostrare la propria riconoscenza: “Ti ringrazio per avermi salvato la vita, per la tua lettera e per l’onorario”, scrisse a Oswald Döpke, che negli anni Cinquanta dirigeva la sezione radiodrammi di Radio Brema, “non avrei mai potuto aspettarmi tanto, ora posso uscire dall’acqua”.
La ricerca di Höller non censura nulla della vita piena di stravaganze della Bachmann e tuttavia lo fa sempre con discrezione, anche quando ricostruisce le appassionate e difficili relazioni della scrittrice con uomini appartenenti ai più diversi universi culturali ed artistici: i citati Weigel e Celan, il compositore Hans Werner Henze, Max Frisch. Anche a proposito dell’esito catastrofico della relazione con quest’ultimo, Höller evita commenti impropri e piuttosto si limita a tracciare lo sfondo e a mettere a disposizione i materiali, lasciando così al lettore la facoltà di esprimere il proprio giudizio. Insomma, una bella monografia, dove a risultare particolarmente riuscita è la commistione tra la ricostruzione dei fatti che hanno caratterizzato la vita della Bachmann e l’indagine critica sulla sua opera.