Inseguendo i sogni di un matematico entriamo nel “romanzo circolare”

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Inseguendo i sogni di un matematico entriamo nel “romanzo circolare”

18 Ottobre 2009

R. T. Dass, matematico e scrittore scomparso pochi anni addietro, è noto tra gli specialisti per le sue ricerche di analisi funzionale e di teoria dei gruppi, ma l’opera per cui è giustamente famoso è un singolare romanzo, "Il Premio della Perseveranza", a lungo quasi ignorato per una serie di vicende legate alla sua inusitata struttura. La lunga narrazione è organizzata in modo ciclico e si dispone intorno a periodici centri o nodi da cui procede per circoli concentrici che interagiscono tra loro in modo complicato. L’interpretazione di questa struttura e la sua risonanza soggettiva cambiano a seconda del punto in cui si trova il lettore e a seconda di certe trasformazioni di variabile compiute surrettiziamente dall’autore in alcuni momenti.

A tratti la struttura, la vicenda e anche il linguaggio si addensano in modo straordinario, come accade nei punti singolari di certe funzioni matematiche in cui l’infinito piano complesso si concentra in un’immagine angusta ma perfetta. In questi gangli della narrazione ogni lettore può cogliere, in misura diversa a seconda della sua penetrazione, l’essenza di tutta l’opera, il suo sviluppo ulteriore e le premesse non esplicitate (ma vedremo le difficoltà di questo accesso). L’intensità comunicativa è tale, in questi passi, che se ne prova uno smarrimento, anzi un vago malessere, come a toccare un’intimità troppo profonda.

Tra i punti singolari più intensi e tormentati è quello in cui vengono ritrovate le cinque monete nella stanza che era stata di Gupta: in quelle monete si riflette, come in un microcosmo pentagonale e abbacinante, non solo la vita di Gupta e il suo imminente destino di morte, ma anche la vita dei suoi compagni, l’atroce storia della Casa presso il Lago e la biografia stessa di Dass, che altrove è diluita e stemperata «come una lagrima nell’oceano». La natura circolare e pseudoperiodica del Premio fa sì che ogni sua parte rimandi con precisione quasi assoluta a un’altra – successiva o precedente, non c’è differenza – in un giuoco infinito di echi, di riflessi e di sprazzi opalescenti che sembrano alludere a significati precisi e inafferrabili. Conscio della tensione spirituale e dell’esaltazione emotiva che avrebbe provato il lettore, nel consegnare il manoscritto all’editore Dass ebbe cura di sopprimerne un capitolo, riducendo il romanzo a un’opera, se non mediocre, certo priva di eccezionalità.

Il capitolo espunto, ritrovato alcuni mesi or sono e da poco pubblicato, costituisce la chiave non solo per comprendere la mirabile struttura formale del libro, ma anche per ristabilirne le proporzioni sentimentali, liriche ed epiche. Come un delicato e complesso organismo che viva pienamente solo nel rapporto armonioso tra le sue varie parti, il romanzo ha riacquistato in questo modo la sua fisionomia originale, insospettata e straordinaria. Non si può più parlare di inizio o di fine della narrazione: ogni passo è in certa misura il centro dell’intero racconto e tutto rotea intorno a tutto.

Che dal libro fosse stato espunto un capitolo era apparso evidente ad alcuni amici dell’autore, ma questi si era sempre rifiutato di discutere l’argomento. A lungo si era congetturato sulla natura e sul contenuto del capitolo eliminato e sui suoi legami col resto del Premio; alcuni giovani matematici si erano perfino esercitati a ricostruirlo secondo equazioni ricorsive che avevano ritenuto di poter estrapolare dalla narrazione. Nessuno di questi tentativi era andato vicino al segno, ma le versioni «completate» del romanzo avevano raggiunto una certa diffusione. Oggi se ne può apprezzare la scolorita lontananza dal vero.

Ma il rigore della struttura o i suggestivi rimandi simbolici non prevalgono su altri aspetti del Premio: anzi il suo fascino più vero sta forse nel contenuto poetico, che non si può esaurire in un’analisi sia pur puntigliosa. Si ricordino «le corti bagnate di luce lunare rinchiusa», o l’aspetto misterioso delle città notturne, in cui larvali personaggi cercano simulacri di verità al termine di ingiustificabili peregrinazioni. Spira ovunque un malinconico senso di irripetibilità che contrasta col ciclico riprodursi della vicenda in condizioni sempre nuove. Tutto ciò s’inquadra ma non si esaurisce nell’inflessibile sintassi del libro.

Gli slanci lirici e descrittivi, scintillanti come inverosimili costellazioni canicolari, sono incastonati nel ferreo giuoco delle corrispondenze e si affacciano in primo piano o si ritraggono sullo sfondo a seconda della distanza che il lettore riesce a stabilire tra sé e il racconto (ma è l’autore stesso, in qualche maniera incomprensibile, a regolare questa distanza). Ad esempio il viaggio notturno dei tre Pellegrini verso la Città sacra può apparire una parabola in necessaria corrispondenza sintattica con la veglia funebre di Gupta, con la reclusione di Dass nel cortile e con tutte le altre scene modulari ed equidistanti; ma quando l’autore ci permette di avvicinarci ad essa con animo più appassionato e meno rarefatto, si può quasi isolarla dal giuoco dei richiami e goderla per ciò che essa ha di delicato e struggente: «La notte fuggiva dinanzi ai loro passi leggieri verso un orizzonte invisibile; nel cielo profondissimo e nero si prolungava la vibrazione trepidante e presaga delle loro anime inquiete».

Tra le pagine più belle ricordiamo quelle in cui Dass descrive la propria prigionia – non è dato sapere se volontaria o imposta – insieme con la serva idiota nelle stanze interne del suo palazzo, disposte intorno a un cortile di pietra ornato di statue e piante fiorite. Tutta un’estate sembra fluire con incredibile lentezza in questo carcere, lontano dal mondo, in uno stupefatto silenzio coronato di eroici tramonti e pervaso di estenuanti profumi: «Passeggiavo nella loggia che circonda il cortile e sentivo il tempo scorrere nelle mie fibre come i granelli di sabbia nell’orifizio di una clessidra di cristallo».

Nella lingua di Dass ogni sillaba, parola o frase narra e insieme rappresenta, suona ed evoca, cristallizzandosi all’interno di un magma bronzeo e vibrante per poi sciogliervisi di nuovo, tracciando duttili lingue ignee che travalicano i limiti del narrare e legano oggetti e significati lontani in un fascio acceso e serpeggiante. Le parole sono vive: si pongono su infiniti piani diversi e risuonano per insondabili profondità, scavando caverne sulfuree dentro la totalità del sentire.

I tentativi di tradurre il Premio nella nostra lingua – quattro finora – sono tutti mal riusciti, sia per la distanza tra la sensibilità di Dass e quella dei suoi traduttori, sia per l’invalicabile diversità fra i suoi mezzi espressivi e i nostri. Queste traduzioni passarono, a suo tempo, quasi inosservate e anche oggi, benché integrate con il capitolo mancante, lasciano perplessi, delusi e vagamente irritati. Come rendere ad esempio la scena dei sitar accordati dalle due ancelle con amoroso avvicendarsi nella notte illune? O quella dell’Indovino, le cui parole si dispongono, come tessere di un mosaico invetriato, secondo un’astrusa ma trasparente scala cromatica, accennando a un significato che resta misterioso fino alla morte di Gupta?

Si pensi anche alla scena di questa morte, che fra tutti i punti nodali della narrazione può essere considerato come quello più essenzialmente singolare e simbolico nella versione monca, benché in quella completa esso venga ricondotto nell’ambito della periodicità strutturale. In una notte di luglio che la luna rischiara col suo pallido volto, Gupta inseguito dagli assassini si rifugia nel Castello diroccato. Prima di varcarne la soglia ingombra di macerie e addentrarsi nel labirinto di sale e cortili – immagine distorta e approssimativa del romanzo stesso – egli si volge un attimo a contemplare la vasta pianura che si stende tranquilla ai piedi del Castello, tagliata in due come da una spada dalla strada bianca, lunghissima e dritta, che punta verso mezzogiorno e simboleggia l’Amore, la Vita e la quieta Felicità domestica che il destino gli ha negato. A tutto ciò Gupta volge le spalle in un attimo di suprema concentrazione sentimentale. La coscienza della morte ormai prossima lo rende indifferente al fascino greve delle rovine sotto la luna. Rifugiatosi in cima all’unica torre superstite, egli attende immobile gli assassini cui non può sfuggire: «Giacque sul tiepido impiantito di mattoni antichi. Lontano nella campagna i cani latravano sotto la luna, mentre buffi di vento portavano breve refrigerio alle sue aride labbra. La sua anima si lanciava ormai per centrifughe vie verso mete lontane».

Opera crepuscolare, anzi notturna, il Premio è popolato di personaggi evanescenti come ombre suscitate da una luna affoscata dietro nubi vaganti; essi sono dotati di una fissità rituale e simbolica come le figure dei tarocchi (si pensi al Venditore d’incenso, alla Donna dal sorriso spento, all’Uomo nel vaso, al Falsificatore di bilance). Solo alcune di queste figure vivono una vita meno provvisoria e lasciano un’impressione durevole e ricorrente.

Come accostarsi dunque a questa incredibile opera che sembra eludere ogni tentativo di contatto tradizionale? Dice Shrivastava nell’ultima appendice della sua monumentale Storia delle Letterature: «Il romanzo di Dass non si può, non dirò penetrare, ma neppure intuire o sfiorare, se non attraverso un’insolita operazione dell’inconscio – il sogno. Solo mediante questa trasposizione di significati, assonanze e strutture in una massa onirica da contemplare fuori del tempo, in uno spazio rarefatto e vagamente incongruo, si può ricavare – se non una visione – almeno un presagio di questa singolare vicenda creativa dell’anima e della mente di un uomo (o di una moltitudine?)».

Del resto un’indicazione implicita ma precisa in questo senso è fornita dallo stesso Dass quando descrive i Sognatori della Città sacra come si presentano agli occhi deliranti dei tre Pellegrini: «I loro corpi giacevano su letti di rose agli incroci di strade convesse, presso ruscelli limpidissimi, sotto torri di cristallo e di pergamena, negli slarghi di piazzette deserte. Sotto di essi l’anima del Mondo fomentava con calore irresistibile i loro sogni: le visioni esalavano in sospiri allungati e si mescolavano e fondevano in una leggiera nube che si sfilacciava intorno alle guglie altissime della Città sacra. Così ognuno viveva con pari intensità i sogni di tutti e nessuno reclamava improbabili e futili paternità. Ciascuno sognava negli altri, ciascun’anima viveva nelle altre, come se una sola immensa creatura multiforme e tentacolare si smemorasse nelle sue fantastiche creazioni oniriche».

Ma non a tutti è dato sognare, e ciò che si sogna non sempre obbedisce ai comandi dei nostri desideri, neppure di quelli più ardenti. Per quasi tutti noi il romanzo di Dass resta un sogno che vagheggiamo di sognare.