Intercettazioni, Fini rimanda la legge a settembre. E Bocchino lo fa “Papa”

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Intercettazioni, Fini rimanda la legge a settembre. E Bocchino lo fa “Papa”

14 Giugno 2010

Sono due le istantanee della giornata politica: il freno a mano che Fini tira sull’iter del ddl intercettazioni alla Camera e l’intervista su “La Stampa” del suo braccio destro Italo Bocchino che ne stabilisce un singolare parallelismo col papato, focalizzando l’analisi sull’autorevolezza del dire .

Il presidente della Camera di prima mattina risponde alla lettera del Pd Franceschini e, interpretando appieno il suo ruolo istituzionale assicura che il corretto svolgimento dei lavori parlamentari “è stato sempre assicurato e lo sarà anche in futuro” nel “puntuale rispetto delle norme regolamentari che disciplinano il procedimento legislativo”.

Poche ore dopo, parlando da Benevento, l’inquilino di Montecitorio specifica meglio il suo pensiero domandandosi perché “dobbiamo correre tanto prima delle vacanze estive, come se ci fosse qualche nemico da combattere?”. Pur confermando la necessità di una legge che regoli “un eccesso” che c’è stato sull’uso delle intercettazioni,  rilancia la necessità di approfondire il confronto.

“Ne stiamo discutendo da oltre due anni, se ne può discutere ancora un pò, facendo uno sforzo ulteriore per evitare polemiche e fraintendimenti, per avere un testo condiviso. Non capisco la fretta di discutere un disegno di legge ordinario” che, tra l’altro, osserva Fini, “ha suscitato da più parti molte contrarietà: è dovere della politica tenerne conto e discutere ancora”. Un modo neanche troppo indiretto per dire che prima, cioè a luglio, si discute di manovra economica, poi più avanti sarà la volta del ddl già licenziato dal Senato.

Ecco di nuovo il controcanto, giocato sul sottile crinale del doppio ruolo, istituzionale la mattina, politico la sera (nel caso specifico) sul quale il presidente della Camera si sta esercitando ormai da tempo. Ecco la “sua” risposta alla linea del partito votata dagli stessi finiani non meno di cinque giorni fa nell’ufficio di presidenza del Pdl che stabilisce che il ddl non avrebbe più dovuto subire nè ritocchi nè indugi nel suo passaggio alla Camera. Detto, fatto.

E se le avvisaglie sono queste, c’è da ritenere che a Montecitorio il livello dello scontro resterà altissimo, anche dentro la maggioranza. Nell’intervista a La Stampa il “sacrestano” Italo Bocchino esalta le virtù del “Papa” Fini. Un elogio che non  è passato inosservato. Non solo per l’improponibile parallelismo intellettual-politico col papato, ma soprattutto per il concetto che sta alla base del pensiero e della strategia finiana: essere minoranza non significa portare avanti idee, offrire spunti, contributi di approfondimento validi come piattaforma del confronto interno – come dice Fini "il sale nella minestra" -, sacrosanto in ogni forza politica.

E magari se non c’è accordo con la maggioranza su alcune questioni, rispettare la regola democratica del voto, dopodichè adeguarsi alla linea che passa. No, per i seguaci del presidente della Camera evidentemente non è così. A leggere l’intervista di Bocchino, infatti, si evince che conta più la presunta autorevolezza del dire che nasconde, in realtà, il potere interdittivo di chi lo dice, piuttosto che il consenso, quello vero, quello che gli elettori assegnano a un partito nelle urne premiandone programma e proposta politica.

In sostanza, per tenere la metafora di Fini si butta via la minestra e si trangugia il sale. E la riprova si ha quando l’ex vice-capogruppo dei deputati sentenzia che Berlusconi ha fatto male i suoi conti, ha “sottovalutato il ruolo della minoranza. Ha pensato – spiega -: noi siamo il 94 per cento, loro il 6, di cosa stiamo parlando? Ma non è così”.

Insomma, Bocchino teorizza il potere di veto di una minoranza come regola della democrazia, il che dimostra una scarsa frequentazione della medesima. Il braccio destro di Fini poi azzarda un parallelismo col papato: “Anche a Mosca chiedevano: quante truppe ha il Papa? Ma la forza del Pontefice non sta nelle truppe, bensì nei fedeli, in chi lo ascolta. Fini è un politico molto ascoltato”. Peccato, che Arcore non sia Città del Vaticano e che Fini tutto possa rivendicare tranne il dogma dell’infallibilità.

Ma il pasdaran finiano si spinge oltre e sentenzia: "Se in un’intervista dice che è assdurdo tutelare la privacy di Provenzano, l’indomani cdevi cambiare la legge". Il che, indicherebbe l’autorevolezza del presidente della Camera. Qualcuno potrebbe dire a Bocchino che Provenzano dal 2006 è in galera? E aggiungergli che negli ultimi due anni il governo Berlusconi in 24 mesi ha assicurato alla giustizia 24 dei 30 superlatitanti. E ancora: che dal primo giorno di questa legislatura sono stati arrestati – come ha riferito ieri il ministro Maroni – 5500 tra mafiosi, camorristi, ‘ndranghetisti. E che tutto questo non ha avuto a che fare con le intercettazioni su cui la legge opera, comprese quelle ambientali sulle quali i finiani battono il tasto.

Insomma, le parole di Bocchino così come anche le rimostranze che oggi si avanzano sulle intercettazioni ambientali appaiono pretesti per venire meno alla parola data. Parola pronunciata in sede ufficiale (il partito) e non intercettata, quindi da non sottoporre ad alcuna verifica, tanto per restare in tema. Ma qui il punto qui è tutto politico.

Per Bocchino conta di più il posizionamento politico di Fini e la prova di forza rispetto al partito, piuttosto che qualunque contenuto. E non dimostra grande interesse per l’investitura popolare, visto che per lui 6 per cento vale più del 94 per cento. Già, l’investitura popolare. Quella che, invece, ha ricevuto Berlusconi e con lui il Pdl, quella che la democrazia sancisce attraverso il voto. E di voti Berlusconi ne ha portati a casa a milioni, giusto due anni fa.

Italo Bocchino che non è certo un novellino della politica dovrebbe sapere che i partiti non si guidano col metronomo del livello di ascolto nella società civile, ma con la legittimazione dell’elettorato. E in quello che sostiene si può leggere in nuce la strategia finiana: minare dall’interno la novità della politica italiana che Berlusconi ha costruito in quindici anni e sancito con la nascita del Pdl e la conseguente vittoria elettorale: il partito degli elettori, dove non esistono correnti  né passaggi intermedi tra il leader carismatico legittimato dal voto e i cittadini che nell’urna scelgono il suo programma elettorale.

Un canale diretto, dunque,  tra la sovranità popolare e chi ne viene investito per guidare il Paese. L’idea dei finiani  è per certi versi opposta e rivolta al passato, allo schema (ormai archiviato) dei partiti del Novecento. Si vorrebbe, in sostanza, tornare al modello del partito che viene prima e sta al centro di tutto. Il tentativo che sembra in atto (dalle intercettazioni al capitolo giustizia solo per citarne alcuni sui quali in questi mesi si è acceso lo scontro interno al Pdl e marcato la distanza tra Berlusconi e Fini) è quello di frapporre tra il leader e il suo popolo il diaframma di una corrente dove tutto deve essere mediato, trattato a oltranza, rivisto e corretto  fino a che l’interesse, non degli elettori ma degli esponenti di corrente rispetto alla loro base elettorale sia perfettamente centrato.

Ed  è forse anche in quest’ottica che si possono leggere le “condizioni” del braccio destro del presidente della Camera per siglare la pace con la maggioranza del partito, non solo sulle intercettazioni ma anche su altri dossier, a cominciare dalla manovra economica (allo studio un pacchetto di emendamenti finiani) : “Siamo davanti a un bivio. O c’è una svolta e nel Pdl d’ora in poi si discuterà preventivamente su ogni questione, decidendo tutti assieme; oppure noi continueremo a porre all’esterno le questioni, alleandoci con l’opinione pubblica”, avverte il pasdaran finiano.

Come? Con l’autorevolezza del dire, secondo il verbo bocchiniano; del dire all’esterno che magari questo Pdl non ci piace, del dire sui giornali o scrivere sulla rete che su ogni questione occorre discutere, limare, perfezionare. Un lavoro senza tempo, insomma, perché ciò che conta è l’autorevolezza del dire, non la capacità del fare e fare in tempi ragionevoli perché in gioco ci sono atti, iniziative, leggi, provvedimenti che hanno a che fare con la vita quotidiana delle persone alle quali la “buona” politica deve essere capace di dare risposte certe e rapide. 

Tutta un’altra storia, rispetto alla “rivoluzione” berlusconiana.