
Intercettazioni, Fini smonta il testo del Pdl al Senato ed è guerra con Schifani

01 Giugno 2010
Che la giornata a Palazzo Madama fosse carica di tensione nessuno lo dubitava, ma che diventasse addirittura incandescente con tanto di scontro istituzionale tra presidenti di Camera e Senato è stato un fulmine a ciel sereno che riapre (se mai si è chiusa) la questione tutta politica del rapporto tra finiani e maggioranza del Pdl, specie su provvedimenti strategici.
Lo scontro, frontale, è sul ddl intercettazioni al suo primo giorno in Aula. Il duello Fini-Schifani si innesca quando l’inquilino di Montecitorio rompe il silenzio per manifestare dubbi sul provvedimento, tornando a ripetere che così come è non va, biasimando il difficile compromesso raggiunto nei giorni scorsi proprio con gli esponenti della sua "corrente" e preannunciando modifiche alla Camera.
Esattamente il contrario di quanto concordato finora e dell’obiettivo che il centrodestra al Senato si è dato: raggiungere il punto di equilibrio più alto tra il lavoro della Commissione e il testo approvato a Montecitorio in prima lettura.
L’uscita di Fini lascia tutti i vertici del Pdl stupiti, ma allo stupore subentra ben presto l’insofferenza per un atteggiamento che, francamente, risulta incomprensibile se si considera che il primo punto di equilibrio era stato raggiunto proprio col presidente della Camera e i suoi fedelissimi (in particolare sulla parte della norma che riguarda il mondo dell’informazione).
Il livello di insofferenza si capisce chiaramente dalle parole di Schifani che reagisce stizzito a quello che viene considerato l’ennesimo distinguo politico e, sul piano istituzionale, un’invasione di campo compiuta dalla terza carica dello Stato alla quale rimprovera di essere sceso sul terreno delle valutazioni politiche, abdicando al suo ruolo di ”super partes”.
Fini va all’attacco durante la sua visita a Santa Margherita ligure, punta l’indice contro la norma transitoria che vale anche per i processi in corso e contro il limite massimo di 75 giorni oltre il quale – così prevede il disegno di legge -, salvo i reati più gravi, non sarà più possibile mettere le utenze telefoniche sotto controllo. Il presidente della Camera si domanda retoricamente "si capisce che se il giorno successivo al settantacinquesimo accade qualcosa, non si può continuare?” sottolineando che su una materia del genere, non bisogna intervenire ”con la mannaia”, tantomeno ”con la sciabola”; semmai con il fioretto.
Dunque, rincara la dose, "è opportuno che il Parlamento rifletta ancora” e se al Senato non cambieranno le cose sarà Montecitorio a riaprire la partita perché se "i deputati lo riterranno necessario si potrà intervenire”. Parole che lasciano di stucco Schifani, il quale replica senza giri di parole osservando che da quando è presidente del Senato non si è mai occupato "di dare valutazioni politiche nel merito di argomenti all’esame di questo ramo del Parlamento. Il ruolo del presidente del Senato è quello di assicurare il rispetto delle regole e dei diritti di maggioranza e di opposizione: èun dovere di terzietà. Men che meno mi sono mai sognato di fare giudizi di merito su argomenti all’esame dell’altro ramo del Parlamento”.
Uno "schiaffo" in piena regola, al quale Fini reagisce passando al contrattacco: ”Ho rispetto totale per l’autonomia del Senato. Il presidente Schifani non può però fingere di non sapere che prima di presiedere la Camera ho contribuito a fondare il Pdl di cui anch’egli è espressione”. Poi l’affondo finale che fa andare su tutte le furie i vertici del Pdl: "Sulle questioni relative alla legalità e all’unità nazionale non ho intenzione di desistere dallo svolgere un ruolo politico".
Il botta e risposta a distanza non finisce qui perché la seconda carica dello Stato controreplica sottolineando che da quando guida Palazzo Madama si è astenuto dall’intervenire sui provvedimenti all’esame dell’assemblea, come invece faceva ”con il massimo sfogo” durante gli anni passati a fare il capogruppo.
La reprimenda finiana tocca anche il tema del federalismo, altro passaggio-chiave del programma elettorale e dell’impegno assunto dal governo in tema di riforme; per questo il clima nel Pdl diventa incandescente mano a mano che passano le ore. Al punto che anche il Cav. – osservano da via dell’Umiltà alcuni dirigenti di spicco del partito – avrebbe manifestato il disappunto per la linea di Fini alla quale oppone un ragionamento chiaro che consegna ai suoi: decida una volta per tutte cosa vuole fare perché il ruolo di leader di minoranza di un partito non é compatibile con quello di presidente della Camera.
Ragionamenti ripresi sia da Schifani che dagli uomini più vicini al premier: Bondi, Quagliariello, Cicchitto e Gasparri. Se il ministro e coordinatore del Pdl si domanda "non se sia corretto, ma se sia utile e ragionevole che il presidente della Camera esprima un giudizio politico nel merito di un provvedimento nel mentre lo si sta discutendo nell’aula del Senato", il vicepresidente vicario dei senatori Pdl va dritto al cuore della questione politica soffermandosi su un punto: Fini "ha tutti gli strumenti per superare il conflitto d’interessi che deriva dal suo doppio ruolo di presidente della Camera, da un lato, e capo di una minoranza interna al Pdl”.
Messa giù così, a molti nel Pdl, è sembrata una richiesta di dimissioni, ma Quagliariello nega richiamando tuttavia il presidente della Camera a "riflettere bene" sulla posizione che ha assunto, specie dopo la complessa mediazione raggiunta coi finiani al Senato e stigmatizzando il fatto che un’uscita del genere sia arrivata a dibattito parlamentare in corso. Un modo più o meno indiretto per dire che a tutto c’è un limite, anche alla pazienza.
Quagliariello finisce così nel mirino dei finiani; prima la nota del Secolo secondo il quale ”Fini è stato eletto presidente della Camera anche per il ruolo politico che ha svolto e al quale non ha nessuna intenzione di abdicare, soprattutto su questioni che riguardano la legalità e l’unità nazionale”. Quindi l’affondo del pasdaran Granata che gli chiede di affrontare "tutti i conflitti di interessi, da quelli più piccoli ai più grandi" e se la prende com Bondi.
Ma a fare quadrato attorno al presidente della Camera non sono solo i fedelissimi più oltranzisti ma anche i finiani più moderati (quelli di Spazio Aperto) a cominciare dal sottosegretario Andrea Augello, uno degli artefici della mediazione con la maggioranza Pdl, per il quale i dubbi di Fini "rappresentano un invito al Parlamento ad approfondire e non un atto eversivo". Plausi a Fini dal Pd, mentre da Montecitorio arriva la critica di Cicchitto che racchiude in sè il livello di insofferenza che in queste ore attraversa il Pdl e che oggi potrebbe palesarsi proprio alla Camera in iniziative di protesta annunciate da alcuni berlusconiani di ferro.
Il presidente dei deputati nota come il ddl approvato alla Camera "col consenso di tutta la maggioranza prevedeva un limite complessivo di 60 giorni". Ragion per cui non si capisce "perché adesso il limite superiore di 75 giorni indicato al Senato viene considerato una sorta di mannaia che distruggerebbe le indagini". Piuttosto, rimarca, occorre evitare che "specifiche questioni di merito diventino pretesti per dissensi politici derivanti da tutt’altre ragioni".
Il riferimento ai distinguo finiani è chiaro come è altrettanto chiaro che alla maggioranza del Pdl non va giù il continuo monito del presidente della Camera sui temi della legalità e dell’unità nazionale, quasi come se ne fosse l’eclusivo depositario. Temi ai quali il presidente dei deputati aggiunge quelli del "garantismo e della difesa dello stato di diritto, parte integrante della piattaforma costitutiva del Pdl e nessuno, neanche un personaggio dotato della massima autorevolezza, può affermare di averne una sorta di rappresentazione esclusiva".
Non da meno il commento del presidente dei senatori Pdl Gasparri che invita Fini a leggere le carte e a guardare al merito perché "vedrà che al Senato la norma sul limite dei 75 giorni è più severa di quella approvata alla Camera dopo un anno di dibattito”.
Alla fine di una giornata convulsa che sul piano tecnico registra il rinvio in commissione (deciso da Schifani accogliendo la sollecitazione delle opposizioni) per approfondire gli undici emendamenti targati Pdl e Lega e gli oltre 50 sub-emendamenti messi a punto dalla minoranza, col testo del ddl che tornerà in Aula tra sette giorni, sul tappeto resta la questione politica aperta nuovamente da Fini e i suoi. E il tema del rapporto tra il presidente della Camera e il premier, a questo punto è facile ritenere che sarà al centro della riunione dei vertici del Pdl che Berlusconi aveva già convocato per domani (mentre i finiani dovrebbero vedersi oggi per decidere il da farsi).
Nessuno, fra i berlusconiani vuole una rottura definitiva, ma adesso il Cav. – spiegano nel Pdl – vuole risolvere la questione prima di ritrovarsi alle prese con uno stillicidio in Aula, evitando così di lasciarsi logorare. E, paradossalmente, correre il rischio di restare ostaggio di una corrente di minoranza non riconosciuta. Per statuto.