Intercettazioni, in difesa della riservatezza e della libertà di parola
21 Maggio 2010
Ma la libertà di dire è tutelata come la libertà di riferire? In Italia questa domanda non è mal posta, in particolare ove si parli di libertà di stampa. Occorre chiederselo quando si discute di quei provvedimenti legislativi resisi necessari per tutelare il diritto di tutti alla riservatezza.
E’ la stessa questione che qualche anno fa, con la sinistra al Governo, fu avvertita anche dal maggior partito d’opposizione. Solo che in quella circostanza, al momento di trovare una soluzione, emerse una diversa sensibilità e tutto fu accantonato. All’interno dell’Unione di Prodi, instabile nei numeri, giocarono il ruolo di freno sia la componente giustizialista, portavoce della casta dei magistrati, che le forze della sinistra alternativa, in crisi di identità per l’ambiguo ruolo tra l’essere parte della maggioranza e fautrice dell’opposizione al sistema.
C’è, però, che in Italia, quando s’avverte la necessità di porre dei limiti, quando è in gioco un diritto di libertà, uno stesso provvedimento non può trovare applicazione per tutti. Della serie: la legge si interpreta per gli amici e si applica per gli avversari. C’è sempre almeno uno per il quale anche il diritto si trasforma in abuso e per il quale si vorrebbero leggi speciali, se non l’obbligo di scomparire, anche se con azione violenta.
E non può reggere affatto la stopposa obiezione della vita privata dell’uomo pubblico trasparente come un contenitore di vetro. Nessuno è una macchina. Tutti hanno diritto ad una parte di vissuto quotidiano che deve restare inviolabile e riservato. Tutti hanno diritto alle debolezze, alle fantasie, ai sospiri, ai sogni, alle megalomanie, agli scatti d’ira, ai sentimenti ed ad esprimersi in libertà. Parlare in privato, senza il timore d’essere intercettati, ad esempio, è una libertà che non può essere svenduta per nessuna ragione.
Parlare di politica, di sport, di donne, di economia, di fatti personali, di gusti, di abitudini, di tendenze, di pulsioni, di fantasie, di desideri, ma anche arrabbiarsi, insinuare, imporre, infierire, raccomandare, suggerire, sono peculiarità che fanno parte della natura relazionale ed impulsiva dell’uomo, come ne fanno parte il vizio di trascendere nelle espressioni o la debolezza di farsi trascinare nelle emozioni. Non si può comprimere il bisogno di esprimersi, né mettere alla berlina le debolezze umane. L’uomo nasce come un contenitore di passioni e di contraddizioni: è imperfetto per carattere e costituzione. Kant sosteneva che l’uomo fosse come un legno storto: ”Da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto”.
Ciò che si dice in privato non può essere in se oggetto di reato, ma neanche deve essere posto all’attenzione della pubblica opinione. A dividere ed ad alimentare la voglia della gente di trarre giudizi, bastano già le televisioni con i reality, le fiction, i talkshow, i programmi di approfondimento e persino con lo sport. Il gusto del dileggio è invece rozzo e medioevale. In Italia sono tutti giudici, proprio come succede per lo sport nazionale, come sono tutti commissari tecnici della nazionale di calcio. Non c’è uomo, donna, vecchio o bambino che non sia pronto a giudicare il suo prossimo. Si colpevolizza ogni cosa, persino le opinioni ed i pensieri, persino le conoscenze e le amicizie.
Ma quello di denigrare l’avversario è un metodo che fa parte della mentalità repressiva dei regimi illiberali. Il giustizialismo è il più pericoloso ed incivile metodo di strumentalizzazione politico-giudiziaria dei comportamenti ritenuti illeciti. Solo la magistratura, invece, come previsto dalla Costituzione, e servendosi delle funzioni di indagine e di pubblica sicurezza dello Stato, ha il compito di prevenire, sanzionare e reprimere i delitti. La funzione giudiziaria non l’hanno, invece, i politici che spesso fingono di ignorare la trasversalità dei reati, e neanche i giornalisti, e tanto meno l’hanno quei “tribunali speciali" allestiti nelle trasmissioni televisive di approfondimento, senza garanzie, senza difesa e senza rigore procedurale. Un metodo aggressivo e violento che si trasforma in intollerabile gogna mediatica e che spesso annienta la vita di gente innocente.
Quasi nessuna intercettazione di rapporti confidenziali tra gente libera e non sottoposta ad indagine giudiziaria, tra quelle che transitano sui giornali, si trasforma poi in una contestazione di responsabilità penale che regga nelle aule di un tribunale. Quale è allora lo scopo di carpire il privato e diffonderlo?
I reati vanno sempre accertati nelle situazioni reali, non attraverso l’orecchio del “grande fratello”.
Anche la trascrizione di uno scambio di battute telefoniche può essere fuorviante. Secondo i toni, le pause, il contesto, si può trasformare un proposito lecito in un altro illecito. Si può sputtanare una persona travisando le sue parole ed i suoi propositi. Si può criminalizzare l’ironia, colpevolizzare le debolezze, strumentalizzare persino il travaglio psicologico di persone sottoposte allo stress di un procedimento giudiziario. Si può anche, come si è visto ad esempio con una intervista al Giudice Borsellino, far dire ciò che invece non era stato mai detto, mixando artatamente interviste diverse.
In uno Stato di Diritto le responsabilità vanno accertate nei Tribunali e chi sbaglia è chiamato a risponderne. Il procedimento penale è pubblico e c’è sempre una sentenza pubblica. Ma la condanna, se c’è, viene dopo e non prima: viene sempre dopo l’accertamento della verità e non stabilita in un processo mediatico.