Intervento sì, intervento no. La Libia resterà comunque nel caos

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Intervento sì, intervento no. La Libia resterà comunque nel caos

09 Marzo 2011

Mentre si intensifica il pattugliamento di sorveglianza sui cieli libici grazie agli aerei radar Awacs, il segretario generale della Nato, Rasmussen, dice "We stand ready", siamo pronti a colpire il regime di Gheddafi. E Obama promette che gli uomini del Rais che in queste ore si stanno macchiando di violenze verranno puniti. Intanto il governo socialista di Zapatero inizia a sollevare i primi paletti contro la missione.

La sempre più critica situazione in Libia pone la comunità internazionale di fronte all’eventualità di un intervento militare per porre fine alla repressione attuata dal regime di Gheddafi contro la popolazione civile. Le ipotesi avanzate in questi giorni prevederebbero in primo luogo l’istituzione di una “no – fly zone” sullo spazio aereo libico così da impedire al regime di Tripoli l’uso della forza aerea per reprimere le manifestazioni popolari ma anche la possibilità, come sostenuto dal senatore John Mc Cain, di un’azione di appoggio diretto e sostegno ai gruppi di opposizione che verrebbero quindi riconosciuti come il governo provvisorio del Paese.

L’operazione si presenta però di non facile realizzazione e con diverse controindicazioni. La prima è che la sua applicazione non solo richiederebbe l’impegno di un rilevante numero di unità navali ed aeree ma anche l’uso della forza per poter eventualmente abbattere gli aerei dell’aviazione libica. A questa va aggiunto il fatto che, come sostengono alcuni analisti, l’istituzione di una “no – fly zone” avrebbe degli effetti assai limitati in quanto le operazioni di repressione contro gli insorti sono condotte principalmente attraverso reparti terrestri. La terza invece è prettamente politica dato che molto probabilmente una risoluzione in tal senso all’interno del Consiglio di Sicurezza incontrerebbe la contrarietà della Russia e della Cina. Davanti alla crisi libica la comunità internazionale si trova quindi di fronte ad un bivio quantomai rischioso e pieno di incognite.

Se si decidesse di abbandonare l’opzione militare lasciando operative solo le sanzioni finanziarie non è escluso che il regime di Gheddafi potrebbe, pur se indebolito, rimanere al potere, con la conseguenza che i rapporti con la Libia peggiorerebbero ritornando indietro di vent’anni. E’ vero che Tripoli si troverebbe ad affrontare un nuovo isolamento diplomatico internazionale, ma potrebbe usare il petrolio ed i rilevanti investimenti libici all’estero come strumento di pressione su Washington e le capitali europee. Ma anche qualora Gheddafi dovesse cedere, l’impegno internazionale probabilmente non si esaurirà nell’attuazione delle misure prima indicate. Il crollo del regime libico porrebbe le diplomazie davanti allo scenario di un possibile vuoto di potere dato che, diversamente dagli altri Paesi della regione, la Libia non dispone di una struttura istituzionale e di un apparato statale organizzato.

Nel Paese non esistono partiti politici, associazioni sindacali o movimenti d’opinione in quanto fin dalla sua ascesa al potere Gheddafi ha impedito la formazione di qualsiasi gruppo organizzato che potesse rappresentare una possibile alternativa al suo regime. Le stesse forze armate, male equipaggiate, impreparate e formate da militari di leva e mercenari di diversi Stati africani, dispongono di una assai scarsa professionalità e non costituiscono quindi un’istituzione in grado di prendere in mano il governo una volta finito il regime di Gheddafi. I gruppi di opposizione poi sono deboli e frammentati tra movimenti laici, islamici e monarchici i quali non esercitano alcuna influenza sulla scena politica libica. Se si esclude la compagnia petrolifera nazionale, unico centro di potere effettivamente strutturato, la Libia resta quindi un Paese organizzato su base tribale, dove per governare è fondamentale ricevere il sostegno dei clan più importanti.

In un simile contesto, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si trovano nella situazione di non disporre di nessuna soluzione “interna” su cui puntare per un’eventuale fase di transizione. I comitati che hanno assunto il controllo della Cirenaica e degli altri centri strappati alle forze governative appaiono come dei gruppi eterogenei composti da persone provenienti dagli ambienti più diversi ma privi di una leadership, mentre all’interno del regime non esistono figure credibili su cui fare affidamento per gestire il dopo – Gheddafi. Il timore è quindi che le forti divisioni regionali e la caotica situazione politica possano mandare in frantumi la Libia trasformandoa in un territorio senza controllo dove potrebbero inflitrarsi elementi legati ad Al – Qaeda o ad altri gruppi fondamentalisti.

Ecco perché, restando fermo il principio che spetta al popolo libico di decidere come organizzarsi, davanti a questo scenario non è escluso che un eventuale intervento internazionale possa proseguire anche dopo l’uscita di scena di Gheddafi trasformandosi in una missione di “Rebuilding Nation” per assistere le autorità locali nella ricostruzione delle istituzioni e dell’apparato statale del Paese. E non è un caso che alcuni osservatori abbiano iniziato a sostenere come il ritorno della Monarchia potrebbe rappresentare una soluzione capace di preservare l’unità del Paese possibilmente all’interno di un quadro “federativo” in cui una parte significativa delle funzioni verrebbe devoluta ai governi regionali. Si tratta per il momento solo di ipotesi. Davanti alle recenti proteste in nordafrica l’Europa e gli Stati Uniti hanno spesso ondeggiato tra “realpolitik” ed appoggio alle forze democratiche locali. Nel caso della Libia, se si rimane in attesa degli eventi, il rischio è quello di ritrovarsi o con un Gheddafi ancora al potere e ritornato su posizioni ostili all’occidente oppure con Paese in pieno caos. Due scenari che vanno assolutamente evitati.