Invece di fare assi per la crescita Monti e Merkel taglino la spesa pubblica
27 Aprile 2012
Come arcinoto ormai, la crisi del debito europeo ha stravolto in pochissimi mesi la politica del Vecchio Continente. Italia, Spagna, Grecia, Irlanda, Portogallo, Olanda, Francia, i destini dei governi di tutti questi paesi sono stati alterati sotto l’impulso dei mercati e del rigorismo di Berlino, imposto via Bruxelles. Solo un anno fa la maggior parte dei governi d’Europa erano riconducibili all’immaginifica famiglia del Popolarismo europeo. Merkel, Berlusconi, Sarkozy, Cameron, Rutte, tutti esecutivi sostenuti da partiti confluenti, almeno sulla carta, nel grande contenitore del Ppe, il partito popolare europeo.
E poi d’un tratto, tutto è cambiato: lo spread, la crisi di fiducia sulla solvibilità sovrana di molti paesi d’Europa – in particolare quella mediterranea, Francia compresa -, l’obsolescenza delle leve politiche di fronte ai movimenti istantanei dei mercati, fattori che sommati hanno finito per disgregare il quadro politico liberal-conservatore europeo.
In Italia il presidente Silvio Berlusconi è stato sostituito dall’ex-eurocrate Mario Monti. In Grecia il premier Georgeos Papandreou è stato rimpiazzato da un altro ex-eurocrate, Lucas Papademos. In Francia il presidente uscente Nicolas Sarkozy sarà presto sostituito, stando a quello che dicono i sondaggi, dal socialista François Hollande. Il premier liberale olandese Mark Rutte andrà alle elezioni il prossimo Autunno. E poi i cambiamenti dei governi d’Irlanda, Portogallo e Spagna.
Giù la prima carta, è caduto parte del castello e non dubitiamo finirà per crollare del tutto. Sarebbe infantile prendersela solamente con la Germania di Angela Merkel. Certo, e bisognerebbe essere spietati con il governo tedesco su questo fronte, alla Cancelliera deve essere rimproverato di far vivere il proprio governo in un conflitto d’interessi che vede Berlino stretta da una parte tra la promozione di rigore di finanza pubblica altru e dall’altra tra i benefici di cui si giova grazie ai bassi tassi d’interesse con cui il governo federale tedesco finanzia ampi programmi di spesa pubblica (Marco Fortis ne ha dato ampiamente conto su Il Sole 24 Ore).
Opportunismo tedesco a parte, la crisi dell’Europa e quella della sua creatura più controversa, l’euro, è in primis la crisi del modello di spesa pubblica attraverso la quale i partiti hanno negli ultimi quarant’anni ‘finanziato’ il consenso: "Dammi il tuo voto e consentirò anche a te d’attingere a un piccolo rivolo di denaro pubblico".
Con il passare dei decenni, però, quella politica miope ha generato un enorme debito pubblico, ha promosso la corruttela in molte nicchie territoriali, ha sommerso l’economia reale di tributi, ha disincentivato l’iniziativa imprenditoriale privata, e soprattutto ha finito col rompere il patto di prosperità tra le generazioni, oggi messe dal ciclo economico in corso le une contro le altre. Il tutto sotto il peso del crollo della curva demografica causato dalle politiche di controllo delle nascite introdotte più di quarant’anni fa.
Con la internazionalizzazione del debito, avvenuta negli ultimi vent’anni, gli investitori internazionali ai quali per anni i governi europei hanno chiesto denaro, presentano oggi il conto in questa che è sempre più una commedia crassa e decadente, il cui ultimo atto è scandito dalle chiacchiere europee di questi giorni sulla crescita. “Più crescita e meno rigore”, è diventato lo slogan di questo più che effimero spirito del tempo dell’Europa. Assieme ovviamente alle parole d’ordine eurobond, alleggerimento quantitativo, austerità, e via discorrendo.
E poi le manie di protagonismo, anche da parte di chi non te le aspetteresti mai: il presidente Mario Monti che ieri da Bruxelles rivendicava d’aver per primo parlato di crescita, quando tutti dicevano appunto “rigore”. So what, presidente Monti? Se è vero come dice che l’Europa deve trovare il modo di fare sviluppo senza mettere in campo le vecchie politiche di spesa pubblica keynesiana, beh, allora l’unico modo per far ciò, è rilanciare l’iniziativa privata, ridisegnando contemporaneamente il sistema fiscale, il quadro normatico che regola le relazioni del lavoro, i sistemi pensionistici e facendo ritirare lo Stato da molti settori dell’economia, in particolare pensioni, sanità, educazione ed energia.
Poi ci sono i media. In Italia siamo, salvo rare eccezioni, al grottesco. Dal "Fate Presto" de Il Sole24 Ore lo scorso 10 Novembre per sbarazzarsi del presidente Berlusconi, le maggiori testate nostrane dimostrano letteralmente di essere allo sbando comunicativo, prese come grancasse di banditori in un corteo dal quale di tanto in tanto spariscono pezzi di seguito (i governi) assaliti e trascinati nei vicoli perpendicolari alla via maestra e scannati da uomini al soldo (le banche d’affari e i fondi d’investimento), il tutto con il silenzio assenso della Signoria in testa al codazzo (la cancelliera Merkel).
Bastava leggerli i giornali italiani di ieri. Il Corriere della Sera titolava ieri: “Patto Roma – Berlino”; Il Sole 24 Ore titolava variando (di poco) sul tema: “Italia – Germania, asse per lo sviluppo”. Fortunatamente c’è sempre il quasi schopenhaueriano Wall Strett Journal il quale, con un articolo del 24 Aprile scorso “Europe’s Phony Growth Debate”, il falso dibattito dell’Europa sulla crescita, ha tentato di levare il velo di Maya riportando alla realtà noumenica, quella vera, ovvero (è proprio il caso di dire) che non esiste alcun asse Roma–Berlino (una definizione che sul piano storico risulta peraltro incauta se non addirittura infausta), né alcuna ricetta pro-crescita, né tantomeno una soluzione al vaglio per risolvere il grande guaio dell’Europa. Solo fumose elucubrazioni giornalistiche, buone per cincischiare in qualche dibattito politico televisivo.
La sola via che l’Europa dei governi nazionali può imboccare per uscire dalla crisi è, nell’immediato, trovare nuove regole per permettere alla Bce di svalutare il debito e gli asset espressi in euro, mettendo così un freno agli incentivi pro-speculativi che le attuali regole statutarie di Francoforte forniscono a banche d’affari e fondi d’investimenti esteri, per poi mettersi subito al lavoro, tagliando la spesa pubblica, e con i risparmi fatti da una parte abbattere lo stock del debito pubblico e dall’altra ridurre il carico tributario su imprese, lavoro e famiglie.
Sarà poi necessario invertire le politiche di controllo delle nascite, per ritrovare quello che in gergo statistico si chiama demographic dividend, ovvero il dividendo demografico sulla crescita (preferibilmente autoctono!). Il tutto pregando che masse di persone dipendenti ormai dalla droga ‘pecunia statale’ non si mettano di traverso sulla strada degli estremi rimedi che solo possono curare quei mali estremi che la cultura della spesa pubblica ha diffuso in tutta Europa.