“Io ho sempre corso per vincere e basta”: inizia l’era Merckx

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

“Io ho sempre corso per vincere e basta”: inizia l’era Merckx

29 Maggio 2011

“Grazie al sole e al mare, anche un ragazzo povero può crescere felice”. Italia anni Sessanta, boom economico e dolce vita. Per chi corre in bici però sempre i soliti rischi, pochi soldi e tanta fatica. “A volte ho pensato che il ciclismo fosse, per i poveri, una soluzione come il seminario: una bocca di meno in casa” (Gianni Mura). Quando Massimo Fini rivede in tv la sobrietà dei funerali di Fausto Coppi del ‘60 nota come allora fosse ancora diffusa l’etica di derivazione cattolica della povertà dignitosa: “(…) il povero non è considerato un reietto. Ancora si crede si possa essere poveri e pure felici. In quegli anni scrive Albert Camus, nella prefazione a Il rovescio e il diritto: «Grazie al sole e al mare, anche un ragazzo povero può crescere felice» ” (Massimo Fini, Il Borghese 11 marzo 1998).

I funerali di Fausto Coppi, morto il 2 gennaio 1960 a soli 39 anni

È gratis e sempre lo sarà, vedere i ciclisti passare non costa niente, il Giro quando attraversa il Paese è sempre romanzo popolare dell’Italia unita. Nel ‘61 è il centenario dell’Unità e la corsa attraversa tutti i luoghi storici. Quarto, Milazzo, Teano, Vittorio Veneto, per la prima volta anche in Sardegna e poi in Sicilia per nave. Nessuno considera il fondale basso del porto di Marsala e la nave pesante di corridori, macchine e bici non riesce ad attraccare: viene svuotata fino a notte in un andirivieni di lance e barchette. “Quale altro sport obbliga, da professionisti, a continuare a pedalare anche espletando le cosiddette funzioni corporali, e non solo di pisciare si parla? Certo, ti puoi anche fermare dietro a un cespuglio come Gaul, che per quella fermata perse il Giro del ‘57. In casi del genere il codice d’onore (non scritto) stabilisce che non si attacca, ma Bobet e Nencini non la pensarono allo stesso modo o forse (erano i tempi dei veri duri) pensarono che un ciclista che per certe cose ha bisogno d´appartarsi non merita rispetto. Peggio per lui” (Gianni Mura, la Repubblica 11/5/2011).

I Giri del ‘62 e ‘63 li vince Balmanion senza neppure una tappa: “Pareva una macchia, adesso mi ricordano per questo”. Un’edizione turistica, quella del ‘62, la solita miniera d’oro per le città attraversate dalla corsa: la tappa di Chieti è ribattezzata “Valle della Rinascita”, Perugia “Città della domenica”, Sestri “Baia delle favole” e l’epica Belluno-Passo Rolle, sotto il gelo 56 ritiri, “Cavalcata dei monti pallidi”. Nel ‘63 è il caos: Federazione e Lega del ciclismo litigano e al via presentano ognuna un campione d’Italia. Il Giro si ferma e serve la mediazione del Governo Segni per farlo ripartire. Vanno pure a ricevimento dal Papa nel cortile di S. Damaso. E se Giovanni XXIII non vedrà la vittoria finale di Balmanion (morirà il 3 giugno) potrà però gustarsi le cinque vittorie di tappa (quattro consecutive) di Vito Taccone. Camoscio d’Abruzzo, scalatore burbero, caciarone istrionico al processo alla tappa di Sergio Zavoli. “Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina”. Memorabile al Tour del ‘64 la sua scazzottata con lo spagnolo Fernando Manzaneque, scende apposta dalla bicicletta nel mezzo della tappa per saltargli addosso. Forse per le polemiche per le volate scomposte di Taccone, forse dal rifiuto di Manzaneque di passare del ghiaccio al Camoscio. Il direttore del Tour Jacques Goddet cercherà di separarli con la paletta per dirigere la gara.

Vito Taccone (Avezzano (L’Aquila) 6 maggio 1940 – 15 ottobre 2007)

EDDY, PITIE’ AUX EUX (Eddy, pietà per gli altri)… Anquetil nel ‘64 bissa la sua vittoria del ‘60, è il periodo più caldo del terrorismo altoatesino e il Giro parte da Bolzano. Adorni nel ‘65 se ne va solo in mezzo alle nevi e vince, 11’ e 26 sul secondo: “Se non fossi stonato al traguardo avrei cantato l’Aida tanto ero felice”. Nel ‘66 le leggendarie scalate di un Jimenez sempre affamato, pare che nella sua stanza tenesse un prosciutto crudo per la notte, e di Franco Bitossi, Cuore matto, fortissimo in salita quando la tachicardia non lo prende, deve fermarsi nel bel mezzo d’una fuga, sedersi su un paracarro e aspettare che il cuore si calmi. Nel ‘67 vince Gimondi e compare Eddy Merckx, sua la tappa del Block Haus sulla Maiella. Dal ‘68 comincia il suo regno. Eddy pitié aux eux (Eddy, pietà per gli altri), al Tour del 1970 la foto sotto i pini a bordo strada di un tifoso e il suo cartello. Nessuna pietà: 5 giri di Francia (1969, 1970, 1971, 1972, 1974) con 34 vittorie di tappa e 96 giorni in maglia gialla; cinque giri d’Italia (1968, 1970, 1972, 1973, 1974); un Giro di Spagna (1973); tre campionati del mondo professionisti (1967, 1971, 1974) più uno dilettanti (1964); sette Milano-Sanremo (1966, 1967, 1969, 1971, 1972, 1975, 1976); tre Parigi-Roubaix (1968, 1970, 1973); due Giri delle Fiandre (1969, 1975); tre Freccia-Vallone (1967, 1970, 1972); cinque Liegi-Bastogne-Liegi (1969, 1971, 1972, 1973, 1975), due Giri di Lombardia (1971, 1972). “Non ho mai contato le volte che Eddy mi ha battuto, ma neppure quelle in cui ho vinto io. Vinsi il Giro del ‘67 e lui arrivò 8° a Milano, onorando il mio successo; lo superai anche nel Lombardia, quell’anno; e poi alla crono di San Marino nel ‘68, a Bergamo nel Giro del ‘76, ad una Agostoni. Non era facile… Non era facile neppure stargli a ruota” (Felice Gimondi).

Felice Gimondi strozza scherzosamente Eddy Merckx. Nonostante la grandissima rivalità i due sono sempre stati grandi amici

Impressionante la sua vittoria decisiva sulle Tre Cime di Lavaredo nel  ’68: “A quella corsa è legato uno dei ricordi più belli della mia carriera: tra panorami mozzafiato rimontai tutti i fuggitivi che all’inizio della salita avevano nove minuti di vantaggio” (Eddy Merckx a Cheo Condina, il manifesto 13/3/2004). Lo stesso anno del primo caso di doping: nella tappa di Roma Bitossi e Grassi sorprendono il gregario di Merckx Van Schil che versa qualcosa nella fialetta antidoping. Lo scandalo scoppia il 16 giugno, l’organizzazione rivela i nove positivi agli stimolanti, tra questi Motta, Balmanion e pure Gimondi. L’anno dopo l’onta macchia Merckx: vince a Montecatini, Terracina e S. Marino, poi viene fermato dopo la tappa di Savona. Contesta subito il risultato dell’esame: “È una trappola, qualcuno vuole fregarmi, le fiale coi prelievi delle mie urine sono state manipolate”. Le telecamere di Sergio Zavoli riprendono quei momenti drammatici, il dolore, la vergogna, il pianto. Laverà quell’onta al Tour un mese dopo. Massacra gli avversari. Roger Pingeon è secondo a 17’ e 34. Raymond Poulidor terzo a 22’ e 13. Gimondi a 29’ e 24. “In quel Tour Merckx aggredì salite, discese, pianure, umiliò il resto del mondo, dette sfogo a tutto il suo sconfinato orgoglio. Cannibale coi pedali e con la testa” (Leonardo Coen, la Repubblica 17/6/2005).

“La vita va avanti. Il ciclismo cambia con la vita”. Poi l’apoteosi del ‘73, quarto Giro vinto, sei vittorie di tappa, in rosa dal primo all’ultimo giorno. Altri tempi. Felice Gimondi, secondo a 8 minuti: “La vita va avanti. Il ciclismo cambia con la vita. Oggi siamo più ricchi, ma viviamo peggio. C’è troppa esasperazione, troppa fretta di arrivare. Non c’è spazio per dialogare, per i rapporti fra persone, fra gli stessi corridori. Un ciclismo più freddo, che non entusiasma il tifo, perché non ci sono più le sfide e i duelli. Armstrong fa solo il Tour; gli avversari solo il Giro o la Vuelta; gli specialisti delle classiche della primavera non li trovi più in autunno. Io ero in prima fila dalla Milano-Sanremo al Lombardia…” (Eugenio Capodacqua, la Repubblica 18/1/2003). L’ultima al Giro di Eddy Merckx è del 1974. E’ meno potente ma vince lo stesso. Cinque vittorie, come Binda e Coppi. ”Da ragazzino sognavo di vincere il Tour, ma mai avrei pensato di conquistarne uno, figuriamoci cinque.

Tra coetanei avevamo organizzato un giro di Francia in miniatura: erano piccole tappe nel quartiere dove vivevo, vicino Bruxelles. Assegnavamo pure la maglia gialla e quella verde. Che tempi. Il mio idolo era il belga Ockers, che perdeva spesso da Coppi e Bartali, ma scattava in salita e conquistava belle vittorie. […] a 16 anni, presi la tessera e cominciai a correre: credo sia stato una sorta di predisposizione naturale, paragonabile a quello che ha portato Van Gogh a dipingere e Mozart a suonare. […] l’emozione più forte resta il primo Tour, nel ‘69, quando rifilai mezz’ora al secondo, il francese Pingeon. Venivo da un Giro d’Italia che avevo dominato e dal quale ero stato squalificato per essere stato trovato positivo alle anfetamine nella tappa di Savona. Ma non avevo preso nulla: sarebbe stato stupido farlo, fu una frazione corsa a una media irrisoria. Così arrivai in Francia con una voglia di riscatto tremenda […]. Io ho sempre corso per vincere e basta, in qualsiasi corsa. Se mi fossi posto il problema del record, allora avrei potuto vincere almeno sette Tour, se non di più. L’etica sportiva consiste anche nel cercare sempre la vittoria. Non è essere cannibale, come mi hanno sempre soprannominato, ma è rispetto per l’avversario e per chi ha organizzato la competizione. Le corse più importanti non le regalavo perché ci tenevo, quelle più piccole le onoravo fino in fondo per far piacere a chi aveva lavorato un anno per invitarmi” (Cheo Condina, il manifesto 13/3/2004).

Continua…