Iran: chi si converte al cristianesimo rischia la vita
29 Dicembre 2016
L’Iran che continua a detenere il tasso di esecuzione pro capite più alto al mondo – nel 2016 sono state cinquecento le persone messe a morte – ha fatto della persecuzione selettiva dei cristiani e di altre minoranze religiose il suo fiore all’occhiello. La stagione che riempie le strade di ogni angolo del mondo civilizzato di luci e simboli natalizi, in Iran ha ben poco di festoso. Annunciare il Vangelo da quelle parti, e in particolare in questo momento dell’anno, vuol dire abbandonarsi alla paura. Convertirsi al cristianesimo, infatti, vuol dire rischiare la vita.
Sono circa 150.000 i cristiani rimasti in Iran, e un centinaio le chiese consacrate. Ma sempre nel mirino. Stando a quanto riferiscono gli attivisti, sarebbero più di novanta le persone rinchiuse nelle carceri del Paese, condannate dopo la conversione dall’islam al cristianesimo. Come Maryam Naghash Zargaran, la professoressa di 38 anni convertita e quindi condannata a quattro anni di carcere. Lasciata in un centro di detenzione per cinque giorni, in condizioni igieniche precarie, insieme a delinquenti e tossicodipendenti, si è poi vista notificare la condanna per “riunione e cospirazione contro la sicurezza nazionale”.
Già malata di cuore e affetta da altre patologie, Maryam è stata privata dell’assistenza legale, il che l’ha indotta ad uno sciopero della fame. Ricoverata in ospedale, nel giro di 24 ore è stata rispedita in cella. Perché è così che funziona in Iran, i “prigionieri politici” vengono privati delle cure mediche e di ogni assistenza legale. Non si contano le storie di persecuzione di questo genere. Così come non va dimenticata la discriminazione ai danni della minoranza religiosa dei Bahà’i. Tanto detestati dal regime iraniano. Questo insomma il sistema punitivo in auge nell’islam sciita.
All’inizio di quest’anno sono stati tre gli uomini imprigionati e condannati a 80 frustate. Perché? Per aver bevuto vino – simbolo del sangue di Cristo – durante una funzione religiosa. Una pena simile è stata riservata a ben trenta studenti condannati a 99 frustate per aver bevuto alcool ad una festa di laurea lo scorso maggio, e perché le donne erano “mezze nude”, cioè non indossavano il velo islamico. Nel 1979 – l’anno della rivoluzione khomeinista – lo strumento preferito di tortura erano le funi metalliche da cingere intorno ai polsi, pratica tornata in voga negli ultimi anni e utilizzata come ‘mera’ minaccia, uno strumento di dissuasione.
Qualcuno sostiene che fu la povertà a spingere l’Iran verso l’estremismo, e non il credo rivoluzionario. Che è tutta colpa del degrado economico, del divario tra ricchi e poveri e del risentimento contro le elite corrotte del passato se l’Iran è quello che è. Una società giovanissima, certo, addirittura un Paese emancipato, dicono, il cui unico neo sarebbe l’alto tasso di disoccupazione. Sarà per questo che si dichiara guerra agli ‘infedeli’? La verità è che siamo al cospetto di una teocrazia, un regime dove la religione diventa ideologia, dove si limitano, severamente, la libertà religiosa, il normale esercizio della libertà di espressione, di associazione e di riunione, in cui il dissenso e le proteste sono criminalizzate.
La detenzione – arbitraria – di giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani, artisti, e come abbiamo visto dei cristiani, sta lì a ricordarcelo. E’ lo stesso Paese che ha minacciato più volte di cancellare Israele in meno di 8 minuti dalla faccia della terra, lo stesso che definisce l’America il “Grande Satana”, lo stesso a cui Obama e i suoi alleati europei hanno non solo teso la mano, ma permesso di sviluppare il proprio programma nucleare. Copriamo le nostre statue patrimonio culturale dell’Occidente e del mondo intero quando i leader religiosi di Teheran vengono in visita ufficiale a Roma, per non ‘turbarli’, allo stesso modo con cui chiudiamo gli occhi e facciamo affari con chi perseguita i cristiani e reprime il dissenso in patria.