Iran, oltre il velo del regime khomeinista
21 Marzo 2009
Il “Vagamondo” è arrivato in Iran, e ne è stato espulso. Stenio Solinas, scrittore (ha appena pubblicato il suo ultimo libro Vagamondo, edito da Settecolori), inviato ed editorialista del Giornale, già esponente della Nuova Destra, è sicuramente una voce stonata nel coro mono-tono del giornalismo italiano. Una vita spesa a scavare nelle radici delle identità. Per questo aveva intrapreso un viaggio all’interno del moloch persiano, per capirne le evoluzioni sociali, politiche, religiose nel trentennale della Rivoluzione khomeinista. Ma non appena il quotidiano diretto da Mario Giordano ha iniziato a pubblicarne i reportage, ecco la scomunica. Pardon, l’allontanamento in quanto “persona non gradita”.
Solinas, cosa ha combinato?
«Si è trattato di un misunderstanding…Sono entrato con un visto turistico e questo è stato interpretato dalle autorità iraniane come un inganno. In punto, per quanto dubbio, di diritto, il loro, non avevano torto. Ma anch’io avevo le mie ragioni, giornalistiche appunto».
Entriamo nel vivo di quello che ha visto. Ryszard Kapuscinsky riteneva nel 1997 che la Rivoluzione e la sua concezione di uno stato teocratico avessero toccato l’apice e fossero ormai in fase calante. Cosa rimane dello spirito di allora nel trentennale di quell’evento?
«Sotto il profilo del potere politico, molto. Dal punto di vista sociale, la situazione naturalmente è differente, non foss’altro perché tre quarti della popolazione iraniana attuale è nata dopo la Rivoluzione, non ha fatto la guerra contro l’Iraq, eccetera. C’è un forte sentimento nazionale, e quindi un orgoglio iraniano, un’ambivalenza verso l’Occidente – meglio, gli Stati Uniti, amati e odiati – il faticoso tentativo di trovare una propria strada verso la modernità».
Già, la modernità. L’Iran è un paese islamico ma non arabo. Ci può spiegare cosa significa?
«Non è facile rispondere. L’Iran non è un Paese arabo per radici, tradizioni, costumi, lingua, caratteristiche fisiche, ma non è una nazione etnicamente omogenea. E’ islamico, ma sciita e non sunnita come la maggioranza degli Stati arabi, e quindi doppiamente minoritario in quel contesto. Ciò che intellettualmente è complesso da spiegare, visivamente si coglie benissimo. Vada in Egitto, in Arabia Saudita, nello stesso Iraq e poi vada in Iran e se ne accorgerà subito. Manca la polvere, il sudore, il languore, le ciabatte, una certa rassegnazione…».
Nei suoi reportage Lei ha parlato di una silente “rivoluzione femminile” volta all’emancipazione della donna; il regime intanto, nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ha giustiziato 59 persone nel solo mese di gennaio, tra cui alcune donne colpevoli di adulterio. Dov’è il problema?
«Come tutti i regimi che mettono il becco nella vita privata delle persone, l’Iran non sfugge alla repressione e/o alla brutalità nel campo dei diritti civili. Detto questo, la “silente rivoluzione femminile” cui Lei accenna sta nella realtà di una nazione dove le donne vanno all’università, lavorano negli enti pubblici, svolgono attività private, guidano l’automobile, l’autobus, l’aeroplano, vanno a cena da sole o in compagnia, divorziano…».
In un discorso del 2005 niente meno che alle Nazioni Unite, riportato da Pietrangelo Buttafuoco nel suo Cabaret Voltaire, Ahmadinejad ha parlato della donna come “fiorimento di tutti i divini talenti umani” sostenendo che “la preziosa esistenza delle donne, come espressione della bellezza divina, è stata oggetto di brutale sfruttamento da parte dei detentori del potere, dei media e della ricchezza”. Detto da lui fa un certo effetto. Cosa ne pensa?
«Lo diceva già Khomeini e quindi non mi fa molto effetto…Più in generale, il peggior modo di porsi nei confronti di un altro paese è quello di giudicarlo attraverso i parametri del proprio. In Italia cinquant’anni fa c’era ancora il delitto d’onore e in America in molti Stati i negri non sedevano a tavola con i bianchi…Ci si dimentica quanto sia faticosa la strada dell’emancipazione nazionale».
A proposito di emancipazione nazionale, cosa significa per il futuro del paese e delle relazioni con l’Occidente il fatto che nel Paese il 70% degli abitanti sia sotto i trent’anni, metà del corpo elettorale sia fra i quindici e i ventotto, e oltre il 60% degli studenti sia donna?
«E’ un discorso che va visto da ambo i lati. Spesso l’Iran vive l’Occidente sotto forma di complotto. E’ un atteggiamento che ha fondamenti storici (negli anni ’50 il premier Mossadeq fu fatto fuori da un colpo di stato anglo-americano, l’Iraq aggressore e invasore degli anni ’80 fu supportato dagli Usa, eccetera), che il potere politico usa a proprio favore. Ogni atteggiamento di chiusura e di condanna, di minacce e di sanzioni è sotto questo aspetto controproducente e finisce per ottenere l’effetto contrario a quello auspicato, rafforza il regime, non lo indebolisce. Più scambi, più collaborazione, più apertura penso vadano invece a favore di una lenta, graduale evoluzione sociale, civile, culturale».
Un aspetto che incuriosisce molto è quello della religiosità. Ci spiega che rapporto esiste tra il Sacro e il potere politico, tra il Sacro e la società?
«Alle preghiere del venerdì attende appena il 2% degli iraniani, ma il 70% dell’economia è sotto il controllo statale attraverso le bovyad, le fondazioni statal-religiose esentasse. Gli iraniani, insomma, dipendono dallo Stato più di quanto lo Stato abbia bisogno degli iraniani… La Repubblica islamica si trova a gestire una società tra le più secolarizzate della regione, ma la politicizzazione del clero voluta da Khomeini e la doppia legittimità istituzionale da lui creata sulla base di un modello cesaristico è, da molti anni a questa parte, motivo di frizioni e di scontri. E’ difficile fare previsioni, ma uno dei paradossi attuali è che molti intellettuali religiosi tacciati di liberalismo o secolarismo, motivano il loro dissenso nel nome di una desacralizzazione delle istituzioni politiche, proprio con la necessità di salvare la religione sottraendola agli apparati dello Stato…».
Paese di paradossi e di grandi pregiudizi, quindi. Ce ne racconta qualcuno?
«Uno gliel’ho appena raccontato. Un altro è un’eredità artistico-poetica incentrata sulla gioia della vita che convive con una religione sciita dove predominano le idee di martirio, tradimento, persecuzione. Un terzo, frutto della disinformazione, è l’identificazione tra “khomeinisti” e talebani…».
L’Iran sembra il “grande Gattopardo”. Lo stato degli ayatollah è in sostanza la continuazione di quello dello scià sotto altre forme?
«E’ una lettura che ha un suo fondamento in nome del petrolio. Questo fa da garante del controllo oligarchico di un’élite naturale che si serve dello Stato come distributore di assistenza e sussidi e come agente di repressione. La grande differenza è che lo scià sognava una modernizzazione forzata sul modello occidentale, mentre il regime che ne ha preso il posto cerca una propria via alla modernità».
In questa ricerca è possibile che uno stato multietnico come l’Iran incroci la democrazia? E’ pensabile una “rivoluzione delle rose” a Teheran?
«Democrazia è un termine ambiguo. Se la si intende nel senso liberal-occidentale sostanziale e non formale, non credo. Se si pensa a “democrazia” come l’Egitto, la Siria, e l’Algeria, la strada mi sembra più percorribile».
Inevitabile infine una breve riflessione geopolitica. Molti analisti considerano l’Iran la chiave per la soluzione dei conflitti del Medioriente. E’ davvero così?
«Forse non è l’unica chiave, certo è una delle chiavi. E’ un potere regionale, e come tale interessato a ciò che gli succede intorno. Credo che nel campo delle relazioni internazionali si debba prendere atto del fallimento della politica di un’unica grande potenza come regolatrice e garante mondiale, ed accettare un ritorno a zone di influenza con egemonie diverse. Il nucleare, civile o militare, sicuramente ne rafforzerà l’immagine e il peso. Ma il nucleare ce l’ha anche il Pakistan, l’India, Israele…».
Solinas, l’immagine complessiva è quella di un Paese dal grande fascino. Consiglia agli occidentali di visitarlo? Con un visto turistico naturalmente…
«L’Iran è un bellissimo Paese, gli iraniani sono ospitali e gli italiani ben visti. Le infrastrutture turistiche sono passabili, l’alcol intoccabile e vietato, la cucina degli alberghi mediocre, la capitale Teheran molto brutta, le ragazze iraniane molto belle…».
Sciarpa attorno al collo, una folta chioma perlata incornicia due occhi brillanti e intensi dietro un paio di occhialini rotondi. Guarda lontano Solinas, e i suoi silenzi dicono più di molte parole. La sensazione che non si lascerà scoraggiare dalle “burocrazie dei cartellini rossi” è certezza. Il “Vagamondo” è già lì a cercare la prossima meta. E noi con lui.