Iran: ricercatore arrestato, svolta la prima udienza del processo per spionaggio
10 Febbraio 2017
La vicenda di Ahmadreza Djalali, il medico iraniano di 45 anni collaboratore dell’Università del Piemonte Orientale, incarcerato dall’aprile 2016 in Iran con l’accusa di spionaggio, sembra ancora lontana dalla sua definitiva risoluzione. Stando a quanto riferito dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani di Palazzo Madama, e dalla senatrice Elena Ferrara, che seguono da vicino il caso, si sarebbe svolta in Iran la prima udienza del processo che vede imputato Djalali, detenuto ora nel carcere di Evin, uno dei peggiori della Repubblica islamica.
Al momento, hanno sottolineato i senatori, non si ha conferma ufficiale del fatto che l’uomo rischi una condanna a morte, come, invece, il ricercatore stesso ha comunicato alla sua famiglia. La Farnesina “si sta muovendo attraverso i suoi canali presso le competenti Autorità iraniane”, hanno aggiunto i due parlamentari. Mentre l’Alto Rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, “è impegnata direttamente e attraverso l’ambasciata olandese a Teheran, perché si possa rapidamente giungere ad una soluzione positiva per la vicenda”.
Djalali ha vissuto in Italia per circa tre anni. Dal 2012 al 2015 ha seguito diversi progetti di ricerca presso il Crimedim, centro di ricerca in medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale, con cui ha collaborato fino al momento della sua reclusione nell’aprile del 2016, quando è stato arrestato a Teheran dove si era recato per una conferenza.
Per ben 7 mesi, il ricercatore iraniano è stato posto in isolamento nella sezione 209 gestita dal ministero dell’Intelligence. In questo periodo, gli è stato negato il diritto di essere difeso da un avvocato. Il 26 dicembre, quando gli è stato annunciato che riceverà la “massima pena”, Djalali ha iniziato uno sciopero della fame che gli ha fatto perdere 18 chili. Secondo quel che lui stesso ha detto alla propria famiglia, è stato obbligato a firmare una confessione dal contenuto ignoto. “Minacciavano di fare del male a me e ai bambini”, avrebbe detto il ricercatore.
I colleghi italiani e svedesi sono ancora sotto shock e non credono affatto che Djalali sia una spia. Probabilmente, ad incastrarlo potrebbe esser stato il fatto di aver firmato articoli specialistici che hanno toccato “grandi interessi” o di avere insegnato con professori israeliani nello stesso master e partecipato ad un progetto finanziato dall’Unione Europea (sulla gestione di emergenze radiologiche, chimiche e nucleari) insieme ad un esperto israeliano. Cause che, in ogni caso, per ora non hanno alcun riscontro ufficiale.
“Sono passati nove mesi dall’arresto di mio marito in Iran. All’inizio non ho denunciato la cosa perché un poliziotto ha chiamato la mia famiglia a Teheran avvertendo che non dovevo parlarne, e io temevo di danneggiare la situazione. Ma non posso più tacere: ieri Ahmad ha chiamato sua sorella, le ha detto che sarà giustiziato con l’accusa di collaborazione con Paesi nemici. Pensano che sia una spia. Ma è solo un ricercatore”. Sono parole cariche di angoscia pronunciate nei giorni scorsi dalla moglie del ricercatore, Vida Mehrannia, per denunciare l’accaduto e lanciare un grido d’aiuto.
Intanto, la petizione per la liberazione di Djalali, lanciata su Change.org, ha già raccolto circa 200mila adesioni, nella speranza che le autorità competenti al lavoro possano portare a compimento le operazioni necessarie per riportarlo a casa.