Iraq, dopo gli attentati Maliki deve sigillare i confini con la Siria
25 Ottobre 2009
Il presidente Obama ha detto che gli attentati che ieri hanno fatto una carneficina a Baghdad – si parla di oltre 130 morti e centinaia di feriti – “non hanno nulla a che fare con il coraggio e la resistenza del popolo iracheno, con la sua determinazione a costruire istituzioni forti”.
Certamente negli ultimi 2 anni l’Iraq ha fatto grandi passi in avanti nel rafforzamento delle sue istituzioni democratiche e una serie di miti che circondavano la “guerra di Bush” sono stati archiviati come tali. Ricordiamone alcuni: il Paese era stato invaso dagli americani unicamente per il petrolio; lo stillicidio dei kamikaze mostrava che si stava meglio quando c’era Saddam Hussein; l’Iraq non si sarebbe mai ripreso economicamente. E ancora, i contractors non servivano a niente e costavano troppo al governo americano; i soldati americani presenti sul territorio non sarebbero stati sufficienti a pacificarlo e non erano adeguatamente equipaggiati. In definitiva, l’America aveva perso la sua guerra.
In realtà il surge ha ribaltato l’idea che l’America non era più disposta ad inviare un numero massiccio di truppe in conflitti lontani e difficili. Il petrolio è tornato agli iracheni e la stabilizzazione del Paese potrebbe garantire una ripresa degli scambi e uno sfruttamento delle ricchezze energetiche esistenti (il gasdotto Nabucco partirà davvero solo quando sapremo se il governo di Baghdad è in grado di garantire gli approvvigionamenti del gas destinato a fare concorrenza a quello russo del Caucaso). Gli attacchi kamikaze sono drasticamente calati rispetto al passato. Le truppe americane si preparano a lasciare l’Iraq, e proprio il lavoro di squadra fra marines, esercito e forze della sicurezza irachene, contractors e Ong, hanno permesso l’inizio della ricostruzione e nuove opportunità economiche.
Dunque la guerra non è stata persa ma non si può ancora dire che sia stata vinta del tutto. Mancano all’appello tre obiettivi che il governo iracheno, insieme all’alleato americano, deve raggiungere prima di terminare una missione che in ogni caso è finita, come ha ricordiato ieri il senatore McCain. I tre obiettivi sono: a) il rafforzamento delle istituzioni, della sicurezza e della vita democratica del Paese; b) la soluzione dei conflitti interetnici e religiosi; c) il controllo delle frontiere irachene, in particolare quelle con la Siria.
Analizziamo ognuno di questi punti più nel dettaglio. A differenza degli attacchi del passato, quelli di domenica (come i precedenti dello scorso agosto) hanno colpito i simboli della giovane democrazia irachena. Edifici governativi, zone centrali della capitale Baghdad. Le esplosioni sembrano dettate da un preciso calcolo politico: minare la fiducia nel governo Maliki, mostrare che il premier è incapace di garantire lo svolgimento di un pacifico processo politico che porti alle prossime elezioni di gennaio (dopo gli attentati Maliki ha fatto arrestare una manciata di ufficiali dell’esercito e della polizia per “negligenza”). “Non escludo che questi attentati abbiano preso di mira le elezioni,” ha detto laconicamente il portavoce del governo Dabbagh. Dopo il voto, nei piani di Obama, la maggioranza delle truppe americane dovrà lasciare il Paese. Lasciarlo in balia di se stesso; i kamikaze volevano far passare questo messaggio, e ci sono riusciti.
Le violenze settarie sono diminuite rispetto alla recrudescenza degli anni precedenti ma le bombe di ieri potrebbero innescare una nuova ondata di scontri interconfessionali. Secondo Dabbagh gli attentati sono stati opera di “un gruppo che agisce dall’interno dell’Iraq”, ovvero degli ex baathisti orfani di Saddam – l’uso delle autobombe porta la firma degli insorgenti sunniti che mirano a rovesciare il governo a maggioranza sciita che guida il Paese (molti degli attentati di quest’anno hanno falciato la comunità sciita, si pensi ai 40 morti durante la ricorrenza dell’Ashura, a Baghdad, all’inizio del 2009).
Ma Dabbagh ha aggiunto che i miliziani sunniti, appoggiati dai mercenari della internazionale islamista e dagli elementi di Al Qaeda, “coordinano le proprie azioni con altri gruppi all’esterno del Paese”. E questo è il terzo ed ultimo obiettivo che Maliki deve raggiungere prima che Obama porti via i soldati americani. Contrastare la porosità dei confini con quei Paesi da cui penetrano ancora terroristi e guerriglieri stranieri. La maggioranza arriva infatti dalla Siria e dall’Iran. In queste ore la polizia irachena sta dando la caccia agli uomini condannati in contumacia per gli attentati della scorsa estate (che avevano colpito palazzi e istituzioni rappresentative del governo iracheno, com’è avvenuto ieri). L’Iraq ha accusato la Siria di aver nascosto i responsabili degli attacchi del 19 agosto. Damasco ha sempre rifiutato queste accuse ma i reciproci sospetti hanno lasciato irrisolta la questione della sicurezza alle frontiere tra i due Paesi.