Iraq, finalmente smentita la fantateoria della “Guerra per il Petrolio”

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Iraq, finalmente smentita la fantateoria della “Guerra per il Petrolio”

Iraq, finalmente smentita la fantateoria della “Guerra per il Petrolio”

11 Luglio 2009

La vulgata che per anni ha riempito la bocca ai pacifinti, ossia ai pacifisti a senso unico (solo contro gli Usa ma mai contro i veri regimi guerrafondai), constava dell’assioma che Bush invadesse l’Iraq per depredarlo del suo petrolio. Qualsiasi altra motivazione – la liberazione d’un paese soggiogato da un tiranno; la destituzione di un governo colpevole di decenni di guerre, milioni di morti, continue intenzioni d’attacco militare contro altri paesi dell’area; la fine d’una dittatura crudelissima e assassina responsabile della destabilizzazione dell’intero Medio Oriente e complice d’ogni forma di terrorismo; il tentativo di favorire una forma di democrazia – era secondo loro evidentemente pretestuosa e fraudolenta.

Tale posizione è frutto o di una cieca propaganda idologico-manichea, o di una puerile visione ottocentesca della politica, dove ancora si assume che sia più facile e redditizio fare una guerra piuttosto che commerciare, non sapendo – o non volendo sapere – che il Big Oil, le multinazionali americane del petrolio, erano state le prime a non essere favorevoli all’intervento militare contro il dittatore Saddam Hussein. Loro sanno bene quanto sia preferibile concludere accordi commerciali anche con le peggiori dittature invece che impelagarsi in avventure belliche. Ma tant’è: la forza delle idee semplicistiche prevale, specie quando si tratta d’agitare slogan ad effetto nei cortei e farsi passare per il “furbo” che non si fa facilmente raggirare dagli imperialisti amerikani. Ora questa analisi insensata viene finalmente a cadere una volta per tutte, e il motivo è il suo essere stata totalmente falsa fin dall’inizio.

Pochi giorni fa a Baghdad, infatti, il ministro del Petrolio, l’incorruttibile Hussain al-Shahristani, ha concluso la prima gara d’appalto – libera – per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iracheni. Il risultato è che il giacimento di Rumalia è stato assegnato a un consorzio anglo-cinese cui partecipano la British Petroleum e la China National Petroleum, con un’offerta al ribasso nel compenso di 2 dollari al barile. Per le prossime concessioni di Zubair e di Nassiriya si prevede l’offerta concorrenziale dell’italiana Eni consociata con la cinese Sinopec. Dopo 37 anni di nazionalizzazioni le aste sono ora aperte a tutti i concorrenti internazionali, quindi non solo agli americani; alla prima qualificazione due anni fa avevano partecipato 120 compagnie, e 35 hanno poi superato le varie fasi d’ammissione. Il paradosso è che tra questi candidati ci sono anche le compagnie di paesi fortemente contrari alla guerra, come la Total francese, la russa Lukoil, la cinese China Petroleum & Chemical Corporation. La conclusione è che le vituperate compagnie petrolifere statunitensi, vere deus ex machina della guerra di Bush secondo la propaganda antiamericana, sono rimaste fuori dal mercato petrolifero iracheno, e ciò è avvenuto solo grazie all’amministrazione Usa che ha garantito la correttezza, la legalità, e infine la ritrovata democrazia in Iraq. Altroché “guerra per il petrolio”, quindi.

Ma c’è un dato ancora più eclatante. Solitamente nel resto del mondo capita che nei contratti di sfruttamento delle risorse petrolifere agli stranieri aggiudicatari venga assegnata una quota di proprietà dei giacimenti, invece in Iraq si è stabilito che alle compagnie straniere venga solo attribuita una percentuale sulle estrazioni, in questo modo i pozzi di petrolio restano iracheni. Come se non bastasse, all’ultimo momento il governo di Baghdad ha preteso e ottenuto un prestito-caparra di 2,6 miliardi di dollari dalle multinazionali vincitrici, a garanzia di inadempienze contrattuali.

Non basta? Si vuole ancora sostenere che il governo e il parlamento Usa siano soliti lanciarsi in atti di pirateria internazionale per razziare innocenti paesi, magari colonizzandoli? Allora si consideri che in totale autonomia il governo iracheno sta attualmente valutando nuove forme di contratto con le società petrolifere straniere, i Tsa. Questi sono accordi di assistenza tecnica con scadenze temporali molto brevi in cui le compagnie straniere hanno la possibilità di sfruttare i pozzi solo per un periodo ridotto, entro il quale devono per contratto trasferire tutte le loro competenze al personale iracheno con speciali corsi di formazione specialistica. Dopo di che i contratti scadranno: in pratica, state in Iraq fino a che ci insegnate a estrarre il petrolio, poi ve ne andate via.

Il problema, infatti, per quasi tutti i paesi ricchi di petrolio è di non possedere la complicatissima e costosissima tecnologia per i sondaggi e per le estrazioni di cui sono invece dotate le multinazionali, ed ecco il motivo per cui non occorre fare dispendiose e laceranti guerre per avere il petrolio: basta offrire il proprio know-how a chi sul petrolio ci cammina sopra ma non è in grado di sfruttarlo. L’Iraq, poi, ha un sistema petrolifero vetusto rimasto fermo agli anni Settanta, e, giustamente, gli iracheni vogliono imparare a gestirselo da soli, con la benedizione degli Stati Uniti.

In palio c’è un tesoro di dimensioni mondiali. I sei giacimenti principali iracheni hanno riserve per 43 miliardi di barili di greggio accertati, con una facilità d’estrazione fuori dal comune. Si consideri che estrarre un barile di greggio in Canada costa 20 dollari fra esplorazione e sviluppo tecnico; per estrarlo in Iraq di dollari ne bastano 2,25 quando va male, altrimenti costa in media 1,50 dollari al barile. Inoltre la maggior parte del paese è ancora intonsa, dal momento che dopo la prima nazionalizzazione del 1972 nessuna compagnia straniera ha più fatto sondaggi e ricerche. Nel sottosuolo iracheno si stima ci siano altri 115 miliardi di barili di greggio, facendolo diventare il primo produttore al mondo con un quarto delle riserve mondiali nei suoi confini. L’Iraq superebbe Arabia Saudita e Iran in un colpo solo.

A fronte di tutto questo i corsari amerikani hanno condotto per sei anni una guerra nel paese più ricco di petrolio al mondo senza toccarne mai una goccia. In Iraq l’esercito americano consumava 40 litri di carburante al giorno per ogni soldato! Come ricorda Daniele Raineri del Foglio, l’armata del generale Patton rimasta a secco di benzina nella Francia del ’44 contava il triplo degli uomini presenti in Iraq ma consumava quattro volte di meno. Nondimeno, pur viaggiando con le lancette del serbatoio perennemente in riserva, i marines non si sono mai appropriati del petrolio iracheno.

Dopo anni di falsità, è ora giunto il momento di gridare a gran voce la verità, mentre adesso in Medio Oriente c’è un dittatore guerrafondaio in meno.