Il grande quotidiano americano ha pubblicato alcuni stralci di un rapporto riservato del governo che dimostrerebbe come il “Piano Marshall” per l’Iraq sia stato costoso quanto infruttuoso. Più di cento miliardi di dollari buttati via in particolare nella formazione della polizia e dell’esercito locale. Non c’è dubbio che la sottovalutazione della realtà irachena da parte degli Usa, sommata alla corruzione e alle inadempienze dei primi governi liberamente eletti a Baghdad, abbiano provocato guai seri alla popolazione.
La ricostruzione di un paese azzerato da qualche decennio di guerra non s’improvvisa in un giorno e neanche in pochi anni. Soprattutto se quel Paese è stato liberato con la mano pesante degli Usa. Lo scrittore Andrea Giovene ha ricordato i terribili bombardamenti punitivi degli Alleati sulle grandi città tedesche quando ormai la Germania nazista era un fantasma. Ecco perché i regimi dittatoriali hanno imparato a temere la democrazia americana, la sua forza e la sua spietatezza.
Il rapporto anticipato dal NYT è stato compilato dall’Office of the Special Inspector General for Iraq Reconstruction che dal 2004 è guidato da un avvocato repubblicano, Stuart Bowen Jr. Il rapporto si basa su oltre cinquecento interviste e audizioni, ispezioni e indagini, frutto delle numerose visite compiute dall’ispettore in Iraq. Il giudizio sulla ricostruzione è duro ma non sorprende più di tanto. Per una serie di errori commessi soprattutto nella prima fase del dopoguerra, la ricostruzione irachena non può essere paragonata al “Piano Marshall” grazie al quale gli Usa rimisero in sesto l’Europa.
Nel 2003 la ricostruzione dell’Iraq fu affidata a Jay Garner che disse “da oggi in poi ciò che dobbiamo fare è creare un nuovo sistema”. Garner si riferiva ai settori essenziali della vita civile, acqua, luce, ordine e sicurezza. Il 18 giugno dello stesso anno il segretario alla Difesa Rumsfeld aggiunse che gli Usa stavano ottenendo formidabili progressi: l’elettricità era stata ripristinata in gran parte del Paese, il sistema idrico operava all’80% del livello prebellico, la produzione di petrolio continuava, e i bambini potevano andare a scuola ed essere curati in ospedale.
Garner e Rumsfeld avevano fretta di lasciare il Paese per archiviare l’operazione irachena come un formidabile blitzkrieg. Un attacco massiccio e fulminante con poche truppe per riportare la la libertà a Baghdad. Il piano era di ritirarsi subito lasciando agli iracheni il compito di forgiare il loro destino nazionale. Le cose sono andate diversamente. Sono stati necessari cinque lunghi anni e uno sforzo bellico enorme per avere ragione della guerriglia saddamita, degli etnosettarismi e della violenza terrorista. Eppure quel 18 giugno Rumsfeld appuntò la medaglia al valor civile al petto di Garner. Entrambi hanno perso il posto per la loro avventatezza.
Naomi Klein ebbe gioco facile a scrivere sul Guardian del 26 giugno 2004 che “a Baghdad le strade sono fiumi di liquami, ma il Program Management Office (l’ufficio che si occupava dei fondi per la ricostruzione, nda) ha appaltato all’Agis – una impresa britannica di mercenari – la protezione dei suoi dipendenti”. Nei primi due anni del dopoguerra iracheno più di 300 agenzie di sicurezza private ottennero lucrosi contratti dalle autorità americane per sopperire alla mancanza di truppe, e a una guerriglia sempre più aggressiva che aveva colto di sorpresa il comando americano.
L’ispettore Browen ci informa dettagliatamente dei fiumi di denaro incassati da Blackwater, DynCorp, Bechtel, e da quella che poi è diventata una delle più forti finanziatrici alla rielezione di Bush: la multinazionale Halliburton. Al solo nominarla i cospirazionisti scendono sul piede di guerra. Per loro l’unica causa della guerra in Iraq è stata il petrolio, nient’altro.
L’amministrazione Bush per un po’ di tempo pensò che sarebbe bastato il mare di oro nero in cui sguazzava Saddam a pagare il conto della ricostruzione. Ma il petrolio andava estratto, difeso, commercializzato. Tutto questo fece decollare la spesa – parliamo di miliardi di dollari – in cambio di modesti profitti. Con il passare del tempo la situazione è cambiata. Il rapporto Browen ci informa che nel luglio del 2008 la produzione petrolifera ha toccato 2,43 milioni di barili al giorno, il risultato trimestrale migliore dal momento dell’invasione. L’export ha generato 33 miliardi di dollari di entrate nella prima metà del 2008. La gestione e i frutti della ricchezza petrolifera stanno passando nella mani del governo iracheno. A questo punto vedremo che uso ne faranno i governanti di Baghdad.
Perché il punto è questo: anche se gli americani hanno deciso di combattere una guerra praticamente da soli non tutte le responsabilità del dopoguerra vanno addossate a loro. Nessuno può dimenticare le condizioni in cui versava il Paese all’epilogo della dittatura di Saddam Hussein. L’economia irachena era fallita, piegata da un ventennio di guerre e 12 anni di embargo. Le infrastrutture cadevano a pezzi, le ferrovie non funzionavano più, gli impianti petroliferi erano decrepiti. L’ultima finanziaria Saddam la fece nel 1978 e da allora neppure un censimento sulla popolazione o uno straccio di notizia sulla disoccupazione e il reddito medio dei cittadini.
Daniel Pipes ha raccontato la storia della Diga di Mosul, la cosiddetta “Diga di Saddam”, finanziata dai sauditi e costruita a tempo di record da un consorzio italo-tedesco agli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento il Rais lasciò che l’opera marcisse senza un controllo. Nel 2007 il Genio dell’esercito americano avverte che la diga rischia seriamente di crollare e che le conseguenze saranno disastrose. A chi viene affibbiata la colpa? Agli americani che hanno invaso il Paese, non al dittatore che lo ha rapinato. “Tutto questo è comprensibile – riflette Pipes – visto che l’amministrazione Bush si è impegnata a migliorare la vita degli iracheni”.
Gli Usa hanno speso 27 milioni di dollari per rabberciare la diga di Mosul. Browen dice che il salvataggio è stato inefficace. Il NYT ci ricama sopra un bel pezzo di denuncia. Non resta che affidarsi a un altro acido commento di Pipes: “L’amministrazione Bush avrebbe dovuto accantonare l’approccio fallace della guerra intesa come ‘lavoro socialmente utile’, per cui gli sforzi militari degli Usa sono stati valutati principalmente in base ai benefici che offrivano al nemico sconfitto piuttosto che agli americani”.
L’esempio della diga di Mosul vale per tutti gli altri problemi della vita irachena di cui gli americani si sono fatti carico insieme ai partner della coalizione. Gli Usa e i loro alleati hanno pagato a duro prezzo questa presa di responsabilità, in termini di vite umane, economici e politici (mai quanto la popolazione irachena). Quando la neonata classe dirigente di Baghdad ha capito che gli atteggiamenti irresponsabili e la corruzione venivano tollerati ha deciso di ritagliarsi una fetta dell’affare.
Nel 2003 le Nazioni Unite tennero una pomposa Conferenza a Madrid ma i fondi previsti per la ricostruzione dell’Iraq sono stati sborsati con il contagocce e i rapaci ministeri iracheni che avevano il compito di gestirli si sono mostrati spesso incapaci di farlo. A questo bisogna aggiungere che molte agenzie delle Nazioni Unite hanno incontrato grosse difficoltà a operare in sicurezza in Iraq. La ricostruzione vera è propria è stata lasciata nelle mani delle comunità locali mentre dei progetti su larga scala affidati all’Onu c’è solo qualche traccia.
Il rapporto Browen non dice che l’Iraq è tornato all’età della pietra. Due anni fa l’ispettore aveva dichiarato che, per la prima volta, la produzione di elettricità, gas e petrolio, era tornata a livelli pari a quelli dell’epoca saddamita. Secondo il generale Petraeus, nell’estate del 2008 la produzione ha superato il livello prebellico. Ma il numero di ore in cui viene erogata l’elettricità si è dimezzato.
Anche la situazione di cibo e acqua non è consolante. Nel 2007 le agenzie umanitarie continuavano a fornire aiuti alimentari a oltre un milione di iracheni. Per molto tempo i lavoratori municipali che trasportavano acqua con i loro camion sono stati uno dei bersagli privilegiati dei miliziani e dei terroristi. Prima dell’invasione c’erano oltre 1200 grandi veicoli per il trasporto dell’acqua, oggi ne sono rimasti circa 400.
Dicono che il sistema sanitario iracheno all’inizio degli anni Novanta fosse uno dei più avanzati del Medio Oriente. Ma che te ne fai dell’assistenza sanitaria se vivi in un regime che gasa i suoi avversari politici gettandone i corpi in una fossa comune? (L’ultima è stata scoperta ieri, conteneva oltre 100 cadaveri.) Gli ospedali iracheni sono regrediti e le infezioni aumentano ma guarda caso in Kurdistan, la regione dell’Iraq più odiata e repressa da Saddam Hussein, i livelli del sistema sanitario superano quelli dell’epoca baathista. Lo scorso giugno anche il ministero della sanità iracheno ha fatto un timido passo in avanti presentando un nuovo piano strategico nazionale di assistenza medica.
Ogni conflitto è fatto di alti e bassi, vittorie e sconfitte. Ma lo scoop del NYT ha un difetto di comunicazione grosso così: esprime la mancanza di una linea editoriale coerente sulla Guerra in Iraq. Dal 2003 ad oggi il giornale americano ha fatto mille giravolte: dapprincipio si è schierato contro “l’invasione” abbracciando le tesi del grande inganno (la storia delle armi di distruzione di massa inventate dall’amministrazione Bush). La politica di riarmo di Saddam Hussein dopo la sconfitta nella Guerra del Golfo è stata ridimensionata dimenticando gli indizi che dimostrano come il dittatore iracheno possedeva quelle armi, sapeva come procurarsele, e stava anche cercando di piazzarle. Indovinate a chi.
Nel periodo successivo alla caduta di Saddam, il NYT ha oscillato tra una micidiale critica alla strategia militare degli Usa e i successi ottenuti dal generale Petraeus. Così dal pantano stile vietnamita siamo passati magicamente al risorgimento sunnita. Adesso che la situazione stava migliorando – nel senso che può avere questa parola a Baghdad – il giornale più democratico d’America doveva riempire con qualche novità la sua prima pagina.
Ci ha provato il mese scorso tirando fuori la storia delle operazioni segrete dei reparti speciali Usa per stanare i terroristi in mezzo mondo, missioni di cui erano a conoscenza solo Bush e la sua cricca di assassini nati. Il pubblico non se l’è bevuta perché se togliessimo al presidente anche il potere di difendere la nazione allora che ci starebbe a fare alla Casa Bianca. Così è arrivato il Piano Marshall fallito miseramente, anzi no, visto che in Iraq sono state rimesse in piedi quel minimo di infrastrutture distrutte dalle bombe del 2003. Parola del New York Times.