Iraq: scadenze e sconfitta
31 Agosto 2007
Alcuni aspetti di una guerra sono complessi e difficili da comprendere, mentre altri sono molto semplici. Nel prossimo mese, quando la discussione sull’Iraq occuperà sempre più spesso una posizione centrale nella cronaca internazionale, sarà fondamentale ricordare un preciso dato di fatto: stabilire scadenze imprescindibili ed inderogabili per il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, o imporre arbitrariamente limiti al numero delle forze impiegate, è equivalente ad accettare una sconfitta, con tutte le sue conseguenze. Ciononostante, molti – inclusi alcuni membri del Congresso – seguitano a sostenere che il successo in Iraq è compatibile con scadenze inflessibili. Non lo è: scadenze inflessibili porteranno inevitabilmente alla sconfitta.
L’Amministrazione Bush, i suoi generali e coloro che dall’esterno hanno formulato la presente strategia sono stati chiari sin dal principio: l’incremento di forze in Iraq (conosciuto come surge) è inteso – e lo è sempre stato – come un provvedimento temporaneo. Il suo fine primario era di ripristinare la sicurezza per la popolazione irachena (e chiaramente di portare a termine con successo tale scopo). Una volta che i livelli di sicurezza avessero raggiunto un livello accettabile e stabile, ci si aspettava che il governo iracheno fosse in grado di iniziare a compiere i primi significativi passi nel cammino di riconciliazione politica a livello nazionale. Nel frattempo, le forze di coalizione avrebbero seguitato a lavorare per aumentare il numero delle Forze di Sicurezza Irachene (Isf) e la qualità delle loro prestazioni. Dall’inizio della surge, le aspettative erano che – con la crescita in quantità e qualità delle Isf – sarebbe divenuto possibile ridurre le truppe statunitensi in Iraq, probabilmente verso il 2008. Tutti gli indicatori sul campo suggeriscono che, per il momento, siamo sulla strada giusta per raggiungere tale obiettivo.
Il concetto chiave secondo questa strategia è che la riduzione delle truppe statunitensi in Iraq sarà dettata dai mutamenti delle circostanze in loco. Solo quando e dove le Isf saranno in grado di prendere il nostro posto e di mantenere la sicurezza, le forze americane potranno ritirarsi. Nelle zone in cui le Isf non riusciranno ancora a lavorare autonomamente, le truppe statunitensi resteranno. La decisione verrà presa dai comandanti sul campo, gli unici in grado di valutare appropriatamente tutte le circostanze.
I comandanti americani, ai quali andrà l’ultima parola a riguardo, sono pienamente consapevoli dei sacrifici che la surge richiede alle nostre Forze Armate (considerato anche come la maggior parte di loro sta servendo per una seconda, terza o quarta missione in Iraq o Afghanistan). Analizzando le osservazioni raccolte durante le frequenti visite alle unità statunitensi e irachene, insieme alle informazioni ricavate dalle fonti di intelligence, i comandanti americani in Iraq sono perfettamente qualificati per compiere le giuste valutazioni. Le uniche ragioni per cui essi si opporrebbero al ritiro delle nostre truppe da una determinata zona sarebbero che un tale ritiro potrebbe rivelarsi dannoso per il successo della missione, potrebbe aumentare la violenza e le attività terroristiche, nonché porre in pericolo gli interessi statunitensi.
Molti cittadini americani, ed in particolare molti politici, vivono comprensibilmente un sentimento di frustrazione nei riguardi di questa guerra e vorrebbero che terminasse. Molti chiedono l’imposizione di scadenze per la riduzione delle forze di combattimento degli USA, secondo certi numeri ed entro tempi determinati. Tuttavia, tali scadenze possono venire interpretate solo in due modi. Possono indicare obiettivi dai quali i comandanti sono liberi di trascendere, a seconda delle mutevoli circostanze sul campo. Secondo tale definizione, le “scadenze” non sarebbero poi sostanzialmente differenti dalla presente strategia, che mira a ridurre la presenza statunitense quanto più rapidamente possibile senza compromettere gli interessi americani in Iraq e nella regione mediorientale.
Altrimenti, potrebbero indicare una pretesa chiara e inflessibile da seguire persino se la situazione sul campo non la giustificasse. Applicata alla corrente situazione in Iraq, significherebbe accettare una sconfitta. In altre parole, se ordinassimo ai comandanti delle truppe statunitensi di ridurre le forze nelle aree dove la sicurezza non può venire garantita senza il loro contributo, staremmo in effetti ordinando loro di tollerare un aumento della violenza e delle attività terroristiche in quelle zone. Se allargassimo tale ordine all’intero paese, staremmo in pratica avvallando il fallimento della missione a tutto campo.
Alcuni sostengono che gli Stati Uniti hanno già fallito in Iraq, e che una vittoria è oramai impossibile. Le prove concrete dell’aumento della sicurezza nel paese e delle prime avvisaglie di movimenti politici sembrano contrastare apertamente tale tesi; tuttavia, se si crede fermamente che il successo non è più possibile, allora avrebbe senso esigere un mutamento di strategia. Persino in tale caso, porre scadenze arbitrarie ai tempi e al numero di forze per la missione sarebbe estremamente pericoloso. Se Harry Reid ha ragione e gli Stati Uniti hanno già perso la guerra in Iraq, non ne segue comunque che possiamo semplicemente ritirarci e lasciare che tutti i nostri interessi nella regione vengano messi da parte.
Persino gli oppositori della guerra che chiedono l’immediata riduzione delle truppe riconoscono che gli Usa dovranno continuare a combattere Al Qaeda in Iraq, per prevenire il genocidio e i conflitti regionali. Chi può dire con esattezza quante truppe sono necessarie per raggiungere questi obiettivi? E se in Iraq si venisse a sapere che Al Qaeda si sta rafforzando più rapidamente di quanto ci si aspettasse, il Congresso vorrebbe proibire al Presidente Bush di mandare rinforzi alle truppe sul campo, soltanto perché questo potrebbe violare le scadenze? I nostri cittadini vorrebbero realmente che il Congresso sostenesse questa posizione, considerando il rischio che Al Qaeda, fattasi più forte, si prepari ad attaccare gli americani in qualsiasi luogo – inclusi gli Stati Uniti?
È perfettamente comprensibile che i cittadini americani e i loro leaders vogliano avere un’idea generale di quanto tempo ancora i comandanti militari reputino necessario per combattere questa guerra; per questo i comandanti militari forniscono regolarmente rapporti dall’Iraq. Chiaramente, i vertici militari devono stimare le forze richieste per ogni evenienza, pianificando per avere truppe disponibili nelle situazioni più ricorrenti, nelle occorrenze semplici così come in eventuali emergenze. Tuttavia non appena la discussione si sposta dalla situazione in Iraq a considerazioni arbitrarie su date e numeri delle forze, ci si dimentica di proteggere gli interessi e i cittadini americani, e ci si muove inesorabilmente verso l’accettazione della sconfitta. Forse qualcuno preferisce accettare una sconfitta, con la sua brava lista di conseguenze; ma non credo siano in molti.
Frederick W. Kagan è Resident fellow presso l’American Enterprise Institute.
Traduzione di Alia K. Nardini