Iraq, si torna a casa. Ed è una vittoria

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Iraq, si torna a casa. Ed è una vittoria

19 Dicembre 2011

Ieri all’alba un lungo convoglio di mezzi blindati del 1st Cavalry Division  con a bordo circa 500 soldati ha percorso l’autostrada che collega l’Iraq al Kuwait: era l’ultimo contingente americano destinato a lasciare il paese dopo otto anni e mezzo di guerra. Lungo quella strada, soprannominata Route Tampa,  sono passati migliaia di vecoli e centinaia di migliaia di soldati. Spesso è stata teatro di sanguinosi attentati e sempre è stata percorsa con apprensione e prudenza. Ieri il sentimento prevalente tra i soldati era l’entusiasmo e l’emozione di essere protagonisti dell’ultimo atto di una vicenda monumentale.

Alle 8 di mattina ora locale, il cancello del confine kuwaitiano si è chiuso dietro l’ultimo blindato. Da ieri gli unici soldati americani rimasti in Iraq  sono i Marine Security Guard di stanza all’ambasciata.

In realtà la chiusura formale dell’operazione Iraqi Freedom, iniziata alle 5.34 ora di Baghdad, del 20 marzo 2003 con l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa e della “Coalition of the Willing”, si era svolta lo scorso 15 dicembre quando la bandiera a stelle e strisce è stata ammainata in tutte le basi americane nel paese.

Alla cerimonia del “casing the colors”, il segretario alla Difesa, Leon Panetta ha ricordato che in quelle basi dove la bandiera veniva ammainata e ripiegata, sono passati complessivamente un milione di soldati americani e 4500 di loro ci hanno lasciato la vita. Il momento era troppo solenne per giustificare lunghi discorsi e Panetta si è valso dell’aiuto di Lincoln dopo la guerra di Gettysburg: “Il mondo non noterà, ne serberà a lungo memoria di quello che che diciamo qui, ma non potrà mai dimenticare quello che abbiamo fatto qui”.

Barack Obama ha così matenuto la sua promessa, ripetuta tante volte, di riportare a casa gli uomini e le donne in armi, e mettere fine a una guerra che non aveva scelto e che non aveva saputo nè combattere nè giustificare.

Eppure anche lui, nel suo ultimo incontro con il premier iracheno, Nouri al-Maliki, aveva dovuto riconoscere che l’intervento americano e alleato nel paese aveva prodotto qualcosa di profondo e di memorabile: “Ciò che è accaduto in Iraq negli ultimi anni, ha rafforzato i legami tra gli Stati Uniti e l’Iraq in modo che non è importante solo sulla base delle nostre relazioni ma che è importante per l’intera regione”.

Era infondo l’idea originaria di George W. Bush, quella secondo cui un Iraq democratico piantato nel cuore del medio-oriente avrebbe fatto la differenza e non solo nella lotta al terrorismo.  Sul versante della “war on terror” la frontiera irachena è stata decisiva: Al Qaeda è stata costretta a scendere in campo in Iraq ed è stata sconfitta e umiliata, non solo dai soldati alleati ma anche dalle popolazioni locali che a un certo punto si sono ribellate al jihadismo. Oggi, con Osama bin Laden morto, ci sono nel mondo arabo migliaia di ragazzi di dieci anni che si chiamano Osama e non sanno più perchè.

Ma l’Iraq desaddamizzato ha fatto la differenza anche in termini strategici generali. Basterebbe pensare a cosa poteva accadere nel contesto delle primavere arabe se anche Baghdad e tutto il paese fossero stati teatro di rivolte popolari e di scontri, con le masse sciite in piazza contro il tiranno sunnita. Quale ghiotto boccone l’Iraq sarebbe stato per il regime di Teheran in un quadro del genere? Il tassello iracheno mancante fa invece venire meno il puzzle di potere immaginato da Ahmadinejad per l’intera regione.

E’ quello che ha detto l’ex segretario alla Difesa Robert Gates, parlando qualche mese fa all’American Enterprise, il covo dei neo-con irredenti: “Il modello riacheno dimostra che la democrazia può funzionare anche nel mondo arabo. Dobbiamo mandare un segnale forte alla regione, che non stiamo andando via a che continueremo a a recitare una parte in questo scenario. Penso che sarebbe rassicurante per gli Stati del Golfo e non sarebbe rassicurante per l’Iran. E questa è una buona cosa”.

Ma l’invasione irachena, la lunga occupazione e poi la fase della ricostruzione democratica ha svolto anche un altro ruolo strategico non indifferente: ha riavvicinato l’America all’Arabia Saudita, ha costretto Riad a uscire dai giochi dietro le quinte, ad attenuare il suo sostegno al fondamentalismo islamico e a svolgere il ruolo da protagonista regionale che le spetta proprio in competizione con l’Iran.

Che qualcosa sia cambiato in Iraq non è solo questione di alta strategia, sono i suoi stessi cittadini a dirlo. In un sondaggio fatto dal National Democratic Institute a fine 2010 attraverso 2000 interviste “faccia a faccia”, il 61 per cento degli interpellati ha detto di credere che la democrazia migliora la qualità della vita, e il 44 per cento ritiene che il paese sia già una democrazia.

Quando i neocon e lo stesso Bush pensavano che l’espansione della democrazia fosse la chiave di volta della strategia di difesa americana e non un semplice orpello etico e che la dittattura saddamita era la vera arma di distruzione di massa che andava sradicata dalla regione non avevano sbagliato di tanto. Certo nel corso della guerra di errori se ne sono commessi molti e su tutti i fronti e il conto dell vittime, militari e civili sta lì a ricordarlo.

Gli anni di mezzo della guerra irachena sono stati diastrosi, gli Usa hanno tardato ad avere una strategia vincente e hanno cominciato presto a dubitare della possibilità di una vittoria. I terroristi di mezzo mondo si sono concentrati in Iraq per combattere la madre di tutte le battaglie contro il Grande Satana e i suoi alleati; la loro potenza di fuoco, la follia dei loro martiti suicidi, tutto era teso a umiliare e distruggere l’Occidente nelle sabbie dei deserti iracheni e nei labirinti delle città in rivolta. Si è arrivati ad un passo da questa sconfitta ma alla fine la si è evitata trasformandola in una vittoria.

La svolta si ebbe con il discorso alla Nazione di Bush nel gennaio del 2007, quando per la prima volta si parlò del “surge” e dell’invio di ulteriori 20.000 marines sul terreno di battaglia. Nel febbraio di quell’anno il generale David Petraeus, venne nominato Comandante in capo delle forze alleate e fu l’architetto del “surge” e in defintiva del ribaltamento delle sorti della guerra irachena.

Gli italiani sono andati via dall’Iraq già nel 2009 e ieri sulla Route Tampa non c’era il tricolore. Ma ci sono 25 soldati italiani che hanno perso la vita in Iraq – 19 solo nell’attentato di Nassyria. Vale ricordarli nel giorno in cui per quel paese si apre una fase nuova a cui anche loro hanno contribuito.