Islamisti contro riformisti: la nuova guerra mondiale in Medio Oriente

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Islamisti contro riformisti: la nuova guerra mondiale in Medio Oriente

05 Febbraio 2009

Si può certamente affermare che non esiste alcuna area al mondo analizzata in modo tanto minuzioso – e quasi ossessivo – come il Medio Oriente. Questo si spiega con diverse cause, ma è indubitabile che molte delle crisi e delle violenze su scala mondiale, e molte delle energie diplomatiche spese per fermarle, sono legate tutte a questa regione. Nonostante tutto, un’enorme trasformazione è avvenuta in questo incrocio di interessi globali proprio nel momento in cui erano presi meno in considerazione. In poche parole, oggi il Medio Oriente è totalmente diverso rispetto a quello che è stato nello scorso mezzo secolo quando interessò profondamente il Regno Unito e ogni altro paese in Occidente.

Per capire realmente quanto sia mutata questa regione, basta considerare le sue principali caratteristiche dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, arrivando fino al nuovo millennio. In questo periodo un tris di fattori critici ha plasmato la storia mediorentale. Primo, il mondo arabofono è stato dominato quasi completamente dalla dottrina del nazionalismo arabo che è stata perseguita sia da grandi movimenti di massa che da tutti i regimi locali. Secondo, gran parte delle politiche del Medio Oriente consistevano in manovre diversive e sovversive tra i regimi nazionalisti che aspiravano all’egemonia regionale – in genere Egitto, Iraq e Siria – e quelli che per sopravvivere cercavano di mettere uno contro l’altro gli “elefanti” – Giordania, Arabia Saudita, eccetera. Terzo, i regimi arabi si erano aggregati in due blocchi sempre più radicali: quello dei regimi contrari allo status quo, con i loro movimenti clientelari schierati con l’Unione Sovietica; e il blocco delle monarchie conservatrici che hanno cercato invano il supporto occidentale per la propria difesa.

Dagli anni Novanta questo assetto regionale ha evidenziato il fallimento dell’ideologia nazionalistica. Dopo tutto, non è mai stata raggiunta quella unità araba che andava dalla costa atlantica del Marocco alla sponda del Golfo Persico dell’Arabia Saudita. Non è mai stata eliminata l’influenza occidentale, non è mai stato distrutto lo stato di Israele e, più in generale, non si è mai alzato lo standard di vita di quelle popolazioni, e ancor meno quello delle loro libertà. Il vento del cambiamento stava soffiando, ma in quale direzione? Negli anni Novanta era facile credere che questi Paesi stessero diventando più moderati. Il fallimento iracheno in Kuwait, il crollo degli sponsor del blocco sovietico e l’inizio del processo di pace arabo-israeliano erano sembrati dei buoni auspici. Qualcuno si illuse che la democrazia avrebbe preso il posto della dittatura, che avrebbe superato l’islamismo e avrebbe reso più splendente il nostro domani.

Ma  non fu quello che accadde. La colpa non era degli sforzi insufficienti o degli errori politici dell’Occidente. Piuttosto del tenace potere delle ideologie tradizionaliste, di quei regimi stessi, e delle società guidate dai regimi in questione. Le poche voci veramente liberali furono soffocate da un messaggio, quello islamista, che aveva una capacità di attrazione  di gran lunga maggiore sulle masse. Entrambe i blocchi dei Paesi arabi compresero che l’ordine in vigore fino ad allora era fallito senza lasciare alcuna soluzione possibile. I moderati proposero la pace con Israele, una maggiore cooperazione con l’Occidente, democrazia, diritti per le donne, e modernizzazione. Dopo tutto, questo era anche il modello usato con successo in gran parte del mondo e ritenuto un ideale da tutti quelli che desiderassero raggiungere risultati simili. Ma quella strada non venne seguita dal Medio Oriente. 

Per i governanti del mondo arabo e musulmano, la riforma preannunciò l’anarchia e lo spettro di una ascesa al potere degli islamisti. Per la maggioranza delle masse tradizionaliste, le soluzioni liberali erano troppo pericolose e poco conosciute. Per gli islamisti, al contrario, rappresentavano un tradimento. Questi ultimi obiettavano che i fallimenti derivassero dalla troppa, e non dalla troppo poca, occidentalizzazione del mondo arabo. Dicevano: puoi aver sbattuto la testa contro un muro di pietra, ma il tuo errore è stato di non averla sbattuta abbastanza forte. Così, il 15 agosto del 2006, il presidente siriano Bashar al-Assad tenne un discorso alla sua docile “Unione dei Giornalisti”. L’Occidente, Israele, e gli arabi moderati, disse Bashar, vogliono un Medio Oriente “costruito sulla sottomissione, sulla umiliazione e la deprivazione dei diritti dei popoli”. Per questo si sarebbe verificato “un assoluto slancio popolare… caratterizzato dall’onore e dall’arabismo… dalla lotta e dalla resistenza”. Il risultato di questa visione è il nuovo Medio Oriente di Assad e del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.

Da allora, gli islamisti sono riusciti a sfidare ovunque e seriamente i nazionalisti nel tentativo di impadronirsi del potere statale senza più cederlo. Questa rivalità si sta allargando grazie a un numero crescente di musulmani in Europa, specialmente da quando gli islamisti sono proporzionalmente più forti nel Vecchio Continente che nel resto del Medio Oriente. Due blocchi, quindi, si contendono il potere regionale. Quello organizzato meglio, lo schieramento più coerente, è guidato dall’Iran islamico, con il più giovane partner siriano, il movimento libanese dell’Hezbollah, quello palestinese di Hamas e gli insorti iracheni. Sempre nel fronte islamista, ma non iraniano, troviamo i Fratelli Musulmani e al-Qaeda. Tutti questi gruppi hanno come obbiettivo quello di distruggere l’influenza occidentale, i regimi arabi e Israele. L’altro blocco è costituito dagli altri stati arabi, da Israele e dall’Occidente. Questo gruppo è ancora debole, disorganizzato e ricco di conflitti intestini. I Paesi e le forze che aderiscono al fronte “moderato” hanno interessi convergenti nel contenere l’Iran, prevenire le rivoluzioni islamiste, controbattere i livelli sempre più alti del terrorismo e della instabilità. Sfortunatamente ciò non implica che queste forze stiano cooperando.

In un’intervista rilasciata al giornalista Bob Woodward, l’ex Segretario di Stato Coondoleezza Rice sembra aver intuito la portata del cambiamento in atto e appare iper-ottimista sulla questione. La Rice ha affermato che è stato raggiunto un alto livello di coesione tra gli alleati degli Usa nella regione, anche se questi Paesi non vogliono dichiararlo o mostrarlo pubblicamente. I regimi arabi infatti sono cauti. Sanno che il proprio popolo accoglierebbe molte delle idee radicali (insegnate per decenni dallo stesso nazionalismo arabo) e vogliono evitare, se possibile, il confronto con gli estremisti. Così, per esempio, gran parte della retorica nazionalista “anti-terrorista” appare come un appello ai terroristi affinché uccidano israeliani e occidentali piuttosto che attaccare le istituzioni e i governi dove essi vivono.

Consideriamo le bizzarre politiche in Iraq, dove – nonostante gli interessi  paralleli degli USA e dei Sauditi nel frenare l’Iran – i sauditi sostengono la rivolta dei sunniti che, a loro volta, uccidono i soldati americani cercando di costringerli alla ritirata. Realisticamente, il pericolo più grande della rincorsa nucleare iraniana non è di poter utilizzare le proprie armi contro Israele – sebbene questa sia una prospettiva piuttosto agghiacciante – ma che le armi cambino l’equilibrio nel conflitto tra i due blocchi. Una volta che l’Iran avrà le bombe atomiche, oltre ai missili a lunga gittata, gli stati arabi si affretteranno a rabbonire Teheran, i Paesi occidentali saranno ancora più propensi a una pacificazione a prezzo di concessioni, e le masse musulmane probabilmente si metteranno in coda per essere reclutate dagli estremisti islamici e per arruolarsi in quello che percepiscono come il fronte vincente.

Questo conflitto imponente, e non solo gli attacchi sporadici di al-Qaeda, nei decenni a venire sarà realmente la questione principale del Medio Oriente e forse per il mondo intero. La battaglia sarà combattuta principalmente negli stati arabi attraverso una guerra civile terrorizzante e rivoluzionaria piuttosto che sul fronte israeliano o occidentale. La capacità occidentale di condizionare gli eventi, in questo senso, sarà limitata. La soluzione non verrà da concessioni fatte a un fronte che, approssimativamente, è  l’equivalente medio-orientale del fascismo filo-tedesco o del comunismo filo-sovietico. La lotta, la costanza, e una serie di alleanze strategiche, sono la chiave della vittoria e della sopravvivenza. Dalla riflessione sulla “Fine della storia” siamo passati a una nuova era fatta di politiche di potere tradizionale e internazionale e verso un contenzioso ideologico che sembra destinato a diventare la principale caratteristica del Ventunesimo secolo.

Barry Rubin è direttore del Global Research in International Affairs e del Middle East Review of International Affairs Journal.

(Traduzione Kawkab Tawfik)