Israel Apartheid Week, le università italiane s’inchinano ai palestinesi

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Israel Apartheid Week, le università italiane s’inchinano ai palestinesi

05 Marzo 2010

In questi giorni, decine di università in tutto il mondo ospitano una serie di eventi legati all’Israel Apartheid Week. Giunta alla sesta edizione annuale, la manifestazione nasce con l’obiettivo di “educare riguardo al sistema di apartheid israeliano” e di imbastire una “campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” contro lo Stato ebraico. Le azioni di boicottaggio sono legate a tre richieste specifiche: fine “dell’occupazione e della colonizzazione israeliana di tutti i territori arabi e smantellamento del muro”, riconoscimento “dei diritti fondamentali degli arabo-palestinesi cittadini d’Israele” e rispetto, promozione e protezione “del diritto dei rifugiati palestinesi a far ritorno alle proprie case, in ottemperanza alla risoluzione 194 delle Nazioni Unite”.

Gli atenei italiani coinvolti sono tre – Roma, Pisa e Bologna – e il calendario delle iniziative è molto ricco: si va dai documentari alle conferenze, dalle tavole rotonde ad un progetto “di sensibilizzazione e di teatro di strada sul boicottaggio dei frutti dell’Apartheid israeliano nei mercati rionali di Roma”, previsto per domani. All’Israel Apartheid Week hanno aderito gruppi studenteschi da ogni parte del globo: si va da Beirut a Edimburgo, da Gerusalemme a Londra, Da New York a Betlemme. Sul piano accademico, da segnalare è poi la risposta di 23 università canadesi in cui la Federazione degli Studenti Ebrei ha organizzato una contro-campagna intitolata Size Doesn’t Matter, e finalizzata – spiegano gli organizzatori al quotidiano “Haaretz” – a “sottolineare i molti risultati e contributi israeliani” sul piano culturale.

L’Israel Apartheid Week – come tutte le iniziative di boicottaggio nei confronti della cultura e dell’economia israeliana – ha chiaramente suscitato molte polemiche. Il principale tema di scontro è l’equiparazione tra lo Stato ebraico e il Sudafrica: secondo Natan Sharansky, presidente dell’Agenzia ebraica per Israele, “il paragone tra Israele e l’apartheid sudafricano è senza alcun fondamento”. Sulla stessa linea si colloca l’editorialista del quotidiano conservatore “Jerusalem Post” Larry Derfner, il quale mette in luce come – a differenza dei neri in Sudafrica – “gli arabi con cittadinanza israeliana hanno avuto diritto di voto sin dal giorno in cui è stato fondato lo Stato ebraico”. Tra le accuse rivolte ai promotori dell’Apartheid Week c’è anche quella di antisemitismo, ma gli aderenti alle manifestazioni sottolineano come criticare le politiche israeliane non significhi attaccare gli ebrei.

Tornando all’Italia, va segnalata anche una lettera scritta da alcuni docenti universitari di Pisa, Firenze e Milano in concomitanza con l’Israel Apartheid Week, intitolata “Diritto allo studio e alla libertà accademica in Palestina”. In questo caso, più che di boicottaggio, i docenti riflettono  sulla “situazione universitaria e scolastica del popolo palestinese”. Dopo aver denunciato “gravi violazioni del diritto all’istruzione, della libertà di insegnamento e della libertà di pensiero”, la lettera critica il fatto che l’Italia nel 2009 sia “diventata primo partner europeo nella ricerca scientifica e tecnologica dello Stato di Israele, responsabile delle violazioni di cui sopra”: obiettivo dei docenti è l’organizzazione di seminari per individuare “degli strumenti di intervento concreto a favore delle università e delle nuove generazioni di studenti e studiosi palestinesi e arabo-israeliani”.

Il rischio, secondo i firmatari, è che si vada incontro ad “un vero e proprio etnocidio del popolo palestinese ed arabo-israeliano”: le nuove generazioni, infatti, sarebbero esposte “ad una radicale perdita della conoscenza della propria storia e della propria identità culturale e linguistica”. Morti, discriminazioni, violazioni del diritto allo studio sarebbero da imputare a Israele che, solo nel corso dell’operazione Piombo fuso, “ha bombardato, distruggendo o danneggiando gravemente, 280 scuole/asili e 16 edifici universitari”. Certo, che la guerra non abbia favorito il sistema d’istruzione palestinese è fuor di dubbio. Quello che viene taciuto, però, è che parte dei problemi andrebbero addossati anche ad Hamas, che nelle università – più che un tempio della cultura e della formazione – vede spesso dei centri di reclutamento politici e terroristici.

Pochi giorni fa, l’Università Islamica di Hebron ha sospeso ogni attività in seguito agli scontri scoppiati tra studenti di Fatah e di Hamas, i quali hanno accusato il presidente dell’Anp Abu Mazen di aver arrestato quattro colleghi. Secondo l’amministrazione universitaria, gli attivisti di Hamas avrebbero distribuito materiale “infiammatorio” dando così il via agli scontri. Simili incidenti non sono nuovi all’Università di Hebron, così come nell’Università Al-Azhar di Gaza. Ma le violenze non si limitano ai giovani: lo scorso anno, il rettore dell’Università Al-Aqsa – Ali Zeidan Abu Zahry – è stato cacciato e sostituito da un consiglio di tre membri cari ad Hamas. Fatah – come riporta l’agenzia di stampa Ma’an – commentò: “Hamas ha preso d’assalto l’Università in modo barbaro e ne ha assunto il controllo con la forza”.

L’elenco delle violazioni al diritto allo studio dei palestinesi dovrebbe insomma comprendere anche abusi interamente attribuibili ad Hamas, nel quadro dello scontro per l’egemonia politica e culturale in corso con i moderati di Fatah. E una cooperazione culturale tra atenei italiani e palestinesi è certamente auspicabile, a patto di valutare attentamente con quali istituzioni accademiche si sta collaborando. Questo però, a differenza di quanto lascia intendere Danilo Zolo sul “Manifesto” di ieri, non dovrebbe essere contrapposto all’accordo governativo che avvia un biennio scientifico e tecnologico italo-israeliano. Piaccia o no, le università dello Stato ebraico sono un esempio di eccellenza, e i loro talenti non sono responsabili delle politiche governative israeliane.