Israele è disposta a scambiare terroristi vivi per i suoi soldati morti
01 Luglio 2008
di Benny Morris
Il leader di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, e il resto dei terroristi della regione non hanno dubbi nello strofinarsi le mani con gioia. Israele è stato umiliato ancora una volta dai suoi nemici arabi e l’immagine di uno stato ebraico fragile come una ragnatela, una tigre di carta del Medio Oriente, ne è uscita significativamente rafforzata.
È stato questo lo sfortunato esito della decisione, presa domenica scorsa dal Gabinetto israeliano, di scambiare un manipolo di libanesi e terroristi palestinesi (vivi), con i resti, in mano ad Hezbollah, di Eldad Regev ed Ehud Goldwasser, i due riservisti delle forze israeliane ammazzati in un’imboscata nel luglio del 2006 lungo il confine tra il Libano e Israele. Ironia della sorte, l’agguato aveva scatenato la guerra estiva in Libano durante la quale Israele cercò, fallendo, di costringere i libanesi e l’Hezbollah a restituire i due soldati, che, lo sappiamo ora, erano stati direttamente uccisi o feriti mortalmente durante l’attacco. Più di 1,500 libanesi, compresi 500 uomini di Hezbollah, e 160 israeliani morirono durante i 33 giorni di guerra.
La prospettiva dello scambio è chiaramente l’atto disperato di un primo ministro debole e del suo Gabinetto trascinati da un’opinione pubblica emotiva che è essa stessa orientata da un coro di appelli provenienti dai parenti dei due soldati. Ed è solo l’ultimo di una catena di scambi in cui Israele ha pagato un prezzo esorbitante per riavere indietro i suoi ragazzi, vivi o morti.
Il modello è stato messo a punto nel 1983, durante la prima Guerra del Libano, quando Israele rilasciò 4,700 tra libanesi e terroristi palestinesi in cambio di sei soldati israeliani catturati. Quattro anni fa, Israele cedette oltre 450 prigionieri in cambio dei corpi di tre soldati israeliani morti e di un colonnello disertore della riserva (vivo) che era stato rapito e portato in Libano da agenti di Hezbollah, da una nazione araba in cui il colonnello stava cercando di concludere uno scambio di droga.
Adesso, per la prima volta, Israele ha semplicemente accettato di scambiare terroristi vivi con uomini morti, per riportarli a casa e dargli una sepoltura. Uno dei terroristi che saranno liberati è Samir Kuntar, un rapinatore libanese che ha partecipato all’assassinio di una famiglia israeliana, compresi due bambini, durante un raid a Nahariya nel 1979. Potrebbero essere consegnati anche quattro miliziani di Hezbollah arrestati da Israele, un certo numero di cadaveri di terroristi e infiltrati, così come un numero imprecisato di prigionieri della sicurezza palestinese (vivi).
I critici dell’accordo, compreso l’ex ministro della giustizia, la colomba Yossi Beilin, hanno dichiarato che le decisioni dei leader israeliani devono essere guidate dall’interesse nazionale e da calcoli di lungo periodo sui guadagni e sulle perdite, non da considerazioni private, familiari o emotive.
Ebbene, questo è esattamente quello che è successo. Fin dall’imboscata di due anni fa, Hezbollah ha fatto un gioco sporco, contrario alle basi del diritto internazionale, rifiutandosi di informare Israele (e le famiglie dei due militari) se i soldati erano vivi o morti, anzi, chiedendo che il governo di Tel Aviv rilasciasse dozzine di terroristi vivi in cambio dell’informazione. Con il passare dei mesi, ufficiali dell’intelligence israeliana hanno determinato, sulla base di tessuti fisici lasciati nel punto dell’imboscata, che i soldati erano quasi certamente morti.
Ma le famiglie, aggrappandosi alla speranza, hanno fatto pressione sul governo perché faccia ogni cosa possibile pur di ottenere il “ritorno” dei ragazzi, manovrando per mobilitare la maggioranza del pubblico e dei media israeliani dietro alle loro richieste.
Il debole primo ministro Ehud Olmert – che è soggetto a una indagine per corruzione che gli impedisce di ricandidarsi – insieme al ministro della difesa Ehud Barak, che spera di tornare al governo ed è prudente per non offendere l’opinione pubblica, hanno ceduto. Olmert ha presentato l’accordo come un modo per evidenziare il valore che la società israeliana mette sulla vita umana e come una testimonianza della “forza morale” di Israele, così come un segnale ai militari israeliani che il governo farà ogni cosa, a qualsiasi prezzo, per ottenere il rilascio dei prigionieri catturati.
“Fin dai nostri primissimi giorni, abbiamo imparato che non dobbiamo lasciarci uomini alle spalle” ha detto Olmert.
Inutile dire che tutto questo non corrisponde a come gli Arabi della regione stanno valutando l’affare. L’accordo spingerà certamente l’organizzazione fondamentalista di Hamas, che tiene prigioniero un altro soldato israeliano, Gilad Shalit, nel suo feudo di Gaza, ad alzare il prezzo; circa cinquecento terroristi di primo piano, è questo, attualmente, il “prezzo” per il rilascio di Shalit. Per di più, questo incoraggerà tutti i terroristi della regione a prendere israeliani in ostaggio.
Non ci sono limiti nel bazar mediorienatale dei prigionieri di guerra.
(Los Angeles Times, 1 luglio 2008)